Aggiornamento Normativo e Giurisprudenziale 2/2014
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Lingua |
Italiano
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Data di pubblicazione |
29/01/2014
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AGGIORNAMENTO NORMATIVO E GIURISPRUDENZIALE 2/2014
SOMMARIO
1. Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 21 del 27 gennaio 2014 relativo all’obbligo per i professionisti di accettare pagamenti effettuati con carte di debito.
2. Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 7 gennaio 2014, n. 61
EFFETTI DELLA CADUCAZIONE DEL TITOLO ESECUTIVO IN CASO DI PIGNORAMENTI RIUNITI ED INTERVENTI TITOLATI
3. Cassazione, Sezione Prima, sentenza 24 gennaio, n. 1508
GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ITALIANO PER LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ LA CUI SEDE LEGALE E’ STATA TRASFERITA NELLE ISOLE VERGINI BRITANNICHE
4. Cassazione, Sezione Prima, sentenza 27 settembre 2013, n. 22209
FALLIBILITA’ DELLE SOCIETA’ PARTECIPATE
1. Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 21 del 27 gennaio 2014 relativo all’obbligo per i professionisti di accettare pagamenti effettuati con carte di debito.
Con il decreto ministeriale che si segnala, il dicastero competente ha provveduto ad emanare la disciplina attuativa dell’obbligo di accettare pagamenti elettronici da parte anche dei professionisti, previsto dall’art. 15 D.L. n. 179/2012.
Le disposizioni regolamentari stabiliscono che imprese e professionisti sono tenuti, per importi superiori ad euro 30, ad accettare pagamenti effettuati a mezzo di carte di debito[1] a far data dal 28 marzo prossimo.
Fino al 30 giugno 2014, l’obbligo sussisterà solo con riferimento ai pagamenti rivolti a soggetti che, per lo svolgimento di attività di vendita di prodotti e prestazione di servizi, nell’anno precedente a quello in cui avviene il pagamento, abbiano realizzato un fatturato superiore ad euro 200.000.
Nuove soglie e nuovi limiti di fatturato potranno essere individuati con un ulteriore decreto da emanarsi nei 90 giorni successivi all’entrata in vigore del decreto i commento con il quale sarà possibile prevedere l’estensione dell’obbligo ad altri strumenti di pagamento elettronici, ivi comprese le tecnologie mobili.
Nessuna sanzione continua ad esser prevista per coloro i quali non si adegueranno alla disciplina illustrata.
Si segnale, infine, che nella giornata di martedì 28 gennaio è stato presentato, in Commissione Affari Costituzionali del Senato, un emendamento al “Decreto Milleproroghe” che prevedrebbe la possibilità di far slittare l’obbligatorietà dei pagamenti elettronici al 30 giugno 2015. A tal proposito il Governo ha manifestato la volontà di procrastinare l’efficacia della disposizione solo al 30 giugno prossimo, anticipando l’intenzione di far correggere in Aula il testo del decreto[2] che posticiperebbe di un ulteriore anno l’entrata in vigore dell’obbligo in questione.
2. Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 7 gennaio 2014, n. 61
EFFETTI DELLA CADUCAZIONE DEL TITOLO ESECUTIVO IN CASO DI PIGNORAMENTI RIUNITI ED INTERVENTI TITOLATI
Con la sentenza segnalata le Sezioni Unite si pronunciano sulla questione relativa agli effetti prodotti dalla caducazione del titolo esecutivo, in capo al creditore procedente, sul processo esecutivo in presenza di pignoramenti riuniti e di interventi titolati.
Sul punto in giurisprudenza sono state elaborate due tesi contrapposte:
- secondo una prima tesi[3] la caducazione del pignoramento iniziale del creditore procedente travolge ogni intervento, titolato o meno, qualora non sia stato integrato da pignoramenti successivi e ciò in quanto ciascun pignoramento ha un effetto indipendente anche rispetto a quelli dei creditori intervenuti, avendo questi ultimi la possibilità di scegliere se sfruttare la procedura già in saturata da un altro creditore o procedere ad un nuovo pignoramento del medesimo bene;
- secondo un’altra tesi[4], invece, il processo esecutivo sarebbe insensibile alle vicende del titolo fatto valere dal creditore procedente, purché il titolo esecutivo azionato da almeno un altro dei creditori intervenuti sia rimasto efficace.
Le Sezioni Unite ritenendo preferibile l’interpretazione sub a), osservano come il nostro ordinamento, accogliendo il principio della par condicio creditorum, consideri creditore procedente e creditori intervenuti tutti titolari dell’azione espropriativa che deriva dal titolo di cui ciascuno è munito e che viene esercitato nel processo esecutivo.
Gli atti compiuti nella procedura esecutiva prescindono, dunque, dal soggetto che li ha concretamente posti in essere, sia esso creditore procedente o intervenuto, e, in un certo senso anche dalle sorti dell’originario titolo esecutivo.
La Corte sottolinea, infatti, come “nel processo d’esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la costante sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell’interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento. Ne consegue che, qualora, dopo l’intervento di un creditore munito di titolo esecutivo, sopravviene la caducazione del titolo esecutivo comportante l’illegittimità dell’azione esecutiva dal pignorante esercitata, il pignoramento, se originariamente valido (secondo quanto si preciserà in seguito), non è caducato, bensì resta quale primo atto dell’iter espropriativo riferibile anche al creditore titolato intervenuto, che prima ne era partecipe accanto al creditore pignorante”.
Il principio dell’indipendenza dei pignoramenti, di cui all’art. 493 c.p.c. non comporta la subordinazione del creditore, munito di titolo, intervenuto in una procedura al creditore procedente. Una differente interpretazione del quadro normativo renderebbe più che opportuno per ciascun creditore effettuare un proprio autonomo pignoramento invece che l’intervento, onde evitare che la sorte del titolo del creditore procedente travolga anche gli effetti della propria azione.
L’assunto per cui la caducazione del titolo posto a base dell’azione esecutiva del creditore procedente non travolge la posizione degli interventori titolati, va precisata come segue:
- il principio espresso non si applica quando i creditori, muniti di titolo esecutivo, intervengano nella procedura dopo che sia stata pronunciata la caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente e l’azione da questi esercitata sia divenuta illegittima;
- il principio non si riferisce alle ipotesi di originaria invalidità del pignoramento per difetto ab orgine del titolo esecutivo, derivante da vizi propri dell’atto o da carenza di presupposti processuali dell’azione esecutiva.
Pertanto solo il difetto sopravvenuto del titolo del creditore procedente consente l’estensione in favore dei creditori intervenuti degli effetti degli atti compiuti nella validità del suindicato titolo.
A conclusione della riflessione sugli effetti della caducazione del titolo esecutivo con cui è stata avviata una procedura esecutiva, le Sezioni Unite hanno, dunque, pronunciato il seguente principio di diritto: “Nel processo di esecuzione forzata, al quale partecipino più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo esecutivo del creditore procedente (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell’esecuzione sull’impulso del creditore intervenuto il cui titolo abbia conservato la sua forza esecutiva. Tuttavia, occorre distinguere: a) se l’azione esecutiva si sia arrestata prima o dopo l’intervento, poiché nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi, il processo esecutivo è improseguibile; b) se il difetto del titolo posto a fondamento dell’azione esecutiva del creditore procedente sia originario o sopravvenuto, posto che solo il primo impedisce che l’azione esecutiva prosegua anche da parte degli interventori titolati, mentre il secondo consente l’estensione in loro favore di tutti gli atti compiuti finché il titolo del creditore procedente ha conservato validità”.
3. Cassazione, Sezione Prima, sentenza 24 gennaio, n. 1508
GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ITALIANO PER LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ LA CUI SEDE LEGALE E’ STATA TRASFERITA NELLE ISOLE VERGINI BRITANNICHE
La fattispecie decisa dalla Corte di Cassazione ha origine dalla richiesta avanzata da un ente previdenziale ad una società avente sede legale, dapprima in una città del nord Italia, successivamente in una città del sud ed, infine, a seguito di delibera di trasferimento della sede legale iscritta nel registro delle Imprese e di mutamento di denominazione, nelle Isole Vergini Britanniche.
L’ente previdenziale, vista l’importanza del proprio credito, avanzava istanza di fallimento che veniva contrastata dalla società debitrice con una eccezione relativa alla carenza di giurisdizione del giudice italiano.
Il Tribunale adito ritenuta fondata l’istanza della ricorrente, ne dichiarava il fallimento. Avverso tale pronuncia veniva proposto ricorso per Cassazione, che però veniva respinto per i motivi di seguito illustrati.
La Corte ha, infatti, osservato come il trasferimento della sede sociale all’estero non sia avvenimento idoneo ad interrompere ipso facto la continuità giuridica della società trasferita, così come tale effetto non può ottenersi con il semplice cambio di denominazione cui non consegue necessariamente un mutamento nell’identità soggettiva.
La continuità soggettiva permane anche nel caso di trasferimento della sede sociale presso le Isole Vergini Britanniche e di assunzione della qualità di International Business Company con nuova denominazione, prevedendo la disciplina dello stato di destinazione espressamente la continuità tra il “vecchio” ed il “nuovo” soggetto giuridico.
Che il trasferimento della sede sociale all’estero non comporti una discontinuità giuridica è confermato anche dal disposto dell’art. 2473, comma 1, c.c. il quale espressamente prevede come detto trasferimento sia una causa per la quale il socio è legittimato a recedere dalla società, implicitamente confermando il permanere ad esistenza della persona giuridica, seppur trasferita all’estero.
La cancellazione della società dal Registro delle Imprese a causa del trasferimento non è idonea neppure a far decorrere il termine annuale di cui all’art. 10 L.F: tale norma, infatti, trova applicazione esclusivamente nei casi in cui la cancellazione sia determinata dalla cessazione dell’attività di impresa, mentre il trasferimento della sede sociale presuppone che vi sia una prosecuzione di tale attività.
Chiarito quanto sopra, la Cassazione ha dunque rilevato come trattandosi sempre del medesimo ente, al di là del cambio di denominazione, l’istanza di fallimento sia stata correttamente proposta nei confronti della società e correttamente notificata alla stessa presso la sua sede estera, non operando, come sopra osservato, il termine annuale decorrente dal momento della cancellazione della società.
Con riferimento alla legittimazione del creditore a proporre istanza di fallimento i giudici di legittimità concludono osservando che la presentazione di tale istanza, a norma dell’art. 6 L.F., non presuppone alcun accertamento definitivo in sede giudiziale, né un credito certo, liquido ed esigibile risultante da un titolo esecutivo, essendo al contrario sufficiente, come avvenuto nel caso di specie, un accertamento solo incidentale del credito vantato.
4. Cassazione, Sezione Prima, sentenza 27 settembre 2013, n. 22209
FALLIBILITA’ DELLE SOCIETA’ PARTECIPATE
Con la sentenza che si segnala la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato da una società, partecipata al 51% da un ente pubblico, alla quale era stato affidato il compito di realizzare e gestire, in regime di concessione, un impianto per lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti urbani e che contestava la propria assoggettabilità al fallimento.
La ricorrente con il proprio atto rilevava come la propria natura di società partecipata, equiparabile in sostanza a quella di un ente pubblico, consentisse l’applicazione dell’art. 1, comma 1, della Legge Fallimentare, e dunque le evitasse la possibilità di essere assoggettata al fallimento.
La società partecipata sosteneva, infatti, come l’attività da essa svolta la facesse rientrare tra le società considerate necessarie in quanto la sua esistenza e la sua operatività sarebbe imprescindibile per l’ente pubblico che la utilizza per lo svolgimento di servizi pubblici essenziali e per il soddisfacimento dei bisogni della collettività.
In tali circostanze – a parere della ricorrente - una eventuale dichiarazione di fallimento, determinando lo spossessamento del debitore e la cessazione dell’attività di impresa, comporterebbe un pregiudizio per l’interesse pubblico non evitabile neppure con lo strumento dell’esercizio provvisorio: tale istituto, infatti, sarebbe stato previsto non a tutela della collettività, ma ad esclusiva protezione dei creditori ed il suo utilizzo in simili circostanze non sarebbe legittimo poiché consentirebbe ad un giudice di interferire nell’esercizio di poteri propri della P.A., potendo egli decidere come e se gestire un determinato servizio.
Le osservazioni di parte ricorrente non sono state, però, apprezzate dai giudici di legittimità i quali hanno rilevato come la qualità del soggetto proprietario delle quote sociali non incida sulla natura soggettiva pubblica o privata di una persona giuridica. Deve, infatti, ritenersi che società ed ente pubblico partecipante siano tra loro autonomi e ciò in quanto il secondo agisce non sulla base di poteri pubblicistici ed in maniera discrezionale, ma opera esercitando gli strumenti propri del diritto societario alla stregua di ogni altro soggetto privato.
Seppur in alcuni casi la disciplina pubblicistica possa essere applicata nell’ambito dei rapporti con le società partecipate, la portata di una simile applicazione deve essere verificata caso per caso sulla base della materia e dell’interesse che il legislatore intende tutelare e non va generalizzata.
La Corte, inoltre, precisa come lo statuto dell’imprenditore commerciale, alla cui applicabilità consegue l’assoggettamento alla legge fallimentare, non dipende in alcun modo dal tipo di attività esercitata, ma sia ricollegabile esclusivamente alla natura del soggetto giuridico. Qualora l’attività esercitata dovesse esser considerata un requisito dirimente per determinare la fallibilità o meno di un soggetto, si arriverebbe infatti a giustificare il paradosso per cui un società interamente privata, che eserciti però un pubblico servizio, non sia per questa sola ragione assoggettabile al fallimento.
Anche le riflessioni relative al carattere necessario che rivestirebbe la società ricorrente non sono state accolte dalla Corte, la quale ha, al contrario, rilevato come la necessità del servizio pubblico esercitato non comporti come conseguenza la necessarietà del soggetto che lo esercita.
Il fallimento della partecipata, infatti, anche se costituita all’unico scopo di gestire il servizio pubblico, non impedisce all’ente di affidare la gestione del servizio ad un altro soggetto: l’eventuale pericolo di interruzione del servizio potrebbe essere evitato ricorrendo all’istituto dell’esercizio provvisorio di cui all’art. 104 L.F.
L’istituto in parola, osserva la Corte, a differenza di quanto asserito dalla ricorrente, non è riservato alla tutela del ceto creditorio, ma ha la finalità di garantire anche i terzi, compresa collettività dei cittadini.
La decisione da parte di un’amministrazione pubblica di affidare la gestione di un servizio ad una società di capitali, perseguendo l’interesse pubblico per mezzo di uno strumento privatistico, comporta che la società stessa si assuma, come qualsiasi altro soggetto privato, il rischio della propria attività di impresa che, inevitabilmente comprende il rischio di insolvenza e la conseguente assoggettabilità al fallimento.
Qualora così non fosse vi sarebbe una chiara violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con tali società entrano in relazione ed a cui deve essere garantita la possibilità di ricorrere a tutti gli strumenti di tutela che l’ordinamento prevede, nell’ambito di un sistema che sia rispettoso delle regole della concorrenza, imponendo parità di trattamento tra tutti i soggetti che operano all’interno dello stesso mercato.
[1] Il decreto ministeriale precisa che per carta di debito deve intendersi lo “strumento di pagamento che consente al titolare di effettuare transazioni presso un esercente abilitato all’accettazione della medesima carta, emessa da un istituto di credito, previo deposito di fondi in via anticipata da parte dell’utilizzatore, che non finanzia l’acquisto ma consente l’addebito in tempo reale”.
[2] MICARDI, “Slitta il Pos per professionisti e imprese”, ne Il Sole 24ORE del 29 gennaio 2014, pag. 2
[3] Cassazione n. 3531/09 secondo cui “In tema di esecuzione forzata, i creditori muniti di titolo esecutivo hanno la facoltà di scelta tra l'intervento nel processo già instaurato per iniziativa di altro creditore e l'effettuazione di un nuovo pignoramento del medesimo bene; nel secondo caso, il pignoramento autonomamente eseguito ha un effetto indipendente da quello che lo ha preceduto, nonché quello di un intervento nel processo iniziato con il primo pignoramento. Ne consegue, proprio in base al principio di autonomia dei singoli pignoramenti di cui all'art. 493 cod. proc. civ., che se da un lato il titolo esecutivo consente all'intervenuto di sopperire anche all'eventuale inerzia del creditore procedente, dall'altro lato, tuttavia, la caducazione del pignoramento iniziale del creditore procedente, qualora non sia stato "integrato" da pignoramenti successivi, travolge ogni intervento, titolato o meno. (Fattispecie disciplinata dalle norme del codice di rito in vigore sino al 28 febbraio 2006). (Rigetta, Trib. Cagliari, 04/12/2007)”.
[4] Cassazione n. 427/1978 secondo cui “Nel processo di esecuzione forzata, al quale partecipano più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo invocato da uno dei creditori (sospensione, sopravvenuta inefficacia, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell’esecuzione sull’impulso del creditore il cui titolo abbia pacificamente conservato la sua forza esecutiva. Tuttavia, quando si tratti di intervento nel processo esecutivo, occorre distinguere se l’azione esecutiva si sia arrestata prima o dopo l’intervento, poiché nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi, il processo esecutivo è improseguibile”.