Aggiornamento Normativo e Giurisprudenziale 5/2014
Autore |
|
Lingua |
Italiano
|
|
Data di pubblicazione |
28/03/2014
|
|
|
|
|
AGGIORNAMENTO NORMATIVO E GIURISPRUDENZIALE 5/2014
SOMMARIO
1. Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi dell’art. 13 comma 6 della legge 31 dicembre 2012 n. 247
2. Decreto Legge 20 marzo 2014, n. 34: disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.
3. Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 5 marzo 2014, n. 5087
AMMISSIBILITA’ DELL’USUCAPIONE DELL’AZIENDA
4. Corte Costituzionale, sentenza 14 marzo 2014, n. 50
ILLEGITTIMITA’ DELLE NORME SANZIONATORIE PER OMESSA REGISTRAZIONE DEI CONTRATTI DI LOCAZIONE
5. Tribunale di Milano, sentenza 5 marzo 2014, n. 3115
TERMINE PER IL DEPOSITO TALEMATICO DEGLI ATTI
1. Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi dell’art. 13 comma 6 della legge 31 dicembre 2012 n. 247
In attuazione della previsione di cui all’art. 13, comma 6, L. 247/2012, il Ministro della Giustizia ha emanato un regolamento con il quale ha fissato nuovi parametri per la determinazione dei compensi degli avvocati, in sostituzione di quelli di cui al D.M. 140/2012.
Il nuovo regolamento, che ha mantenuto sostanzialmente il medesimo impianto del precedente continuando ad utilizzare una “tariffazione” per fasi dell’attività difensiva, entrerà in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e si applicherà alle liquidazioni successive a tale data.
Al regolamento sono allegate delle tabelle nelle quali è indicato il compenso medio da liquidare all’avvocato in correlazione ad ogni singola fase del procedimento in cui presta la propria attività, in funzione del valore del procedimento (determinato secondo i criteri di cui al codice di procedura civile) e secondo la medesima suddivisione in scaglioni prevista per il contributo unificato.
Sin dal primo articolo viene chiarito che le nuove disposizioni avranno una operatività residuale, in quanto dovrà farsi ricorso ad esse solo quando non vi è stato alcun accordo sul compenso tra avvocato e cliente, nelle ipotesi di liquidazione e di prestazione nell’interesse di terzi o prestazioni officiose previste dalla legge.
L’art. 2 del testo ribadisce la necessità che il compenso del legale sia proporzionale all’importanza dell’opera prestata e stabilisce che, oltre al pagamento del compenso ed al rimborso delle spese documentate, all’avvocato sia dovuto anche un rimborso forfettario per spese generali fissato nella misura del 15% del compenso.[1]
Ai fini della liquidazione del compenso occorre tenere presente le caratteristiche, l’urgenza ed il pregio dell’attività prestata, l’importanza la natura la difficoltà ed il valore dell’affare, oltre alle condizioni soggettive del cliente, i risultati conseguiti ed il numero e la complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate.[2]
L’avvocato che difende più clienti, i quali abbiano la stessa posizione processuale, ha diritto, di regola, ad un compenso unico che può, però, essere aumentato del 20% fino a 10 soggetti, del 5% oltre i 10 fino ad un massimo di venti.
Nelle separazioni consensuali o nei divorzi ad istanza congiunta il compenso previsto è lo stesso di quello spettante per l’assistenza ad un solo soggetto.
Le fasi del giudizio individuate nel nuovo regolamento sono:
- studio della controversia;
- introduzione del giudizio;
- istruzione;
- decisione.
Alle fasi appena elencate si sommano quelle proprie dell’esecuzione.
I compensi indicati per ciascuna fase rappresentano valori medi che potranno, però, essere aumentati fino all’80% o diminuiti fino al 50%. Con specifico riferimento alla fase istruttoria è prevista la possibilità di aumentare il valore sino al doppio o una riduzione fino al 70%.
È inoltre prevista la possibilità di prevedere un aumento del compenso a favore dell’avvocato vittorioso che nel corso del giudizio sia stato capace di far emergere la manifesta fondatezza della propria pretesa nei confronti della controparte.
Nelle ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione, la liquidazione del compenso è aumentata fino a un quarto rispetto a quella altrimenti liquidabile per la fase di decisione, oltre a quanto già maturato con riferimento alle fasi precedenti del giudizio.
In sede di liquidazione giudiziale del compenso costituisce elemento di valutazione negativa l’adozione di condotte abusive che ostacolino la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli.
Per quanto riguarda i procedimenti arbitrali, sia rituali che irrituali, agli avvocati che svolgano la funzione di arbitro è dovuto un compenso commisurato sulla base dei parametri numerici di cui alla tabella allegata al decreto in commento.
Con riferimento all’attività stragiudiziale, il provvedimento prevede si liquidi un compenso onnicomprensivo in relazione ad ogni attività inerente l’affare trattato.
L’attività stragiudiziale prestata prima o in concomitanza di quella giudiziale ha una autonoma rilevanza rispetto a quest’ultima e viene sempre liquidata utilizzando i parametri di cui alla più volte indicata tabella.
Anche in questi casi, per quanto concerne la determinazione del valore dell’affare, si fa riferimento a quanto previsto dal codice di procedura civile.
L’articolo 21 del decreto ministeriale specifica, in ogni caso, che :
- per l’assistenza in procedure concorsuali giudiziali e stragiudiziali si ha riguardo al valore del credito del cliente creditore o all’entità del passivo del cliente debitore;
- per l’assistenza in affari di successioni, divisioni e liquidazioni si ha riguardo alla quota attribuita al cliente;
- per l’assistenza in affari amministrativi il compenso si determina secondo i criteri previsti dalle norme dettate per le prestazioni giudiziali, tenendo presente l’interesse sostanziale del cliente;
- per l’assistenza in affari di materia tributaria si ha riguardo al valore delle imposte, tasse, contributi e relativi accessori oggetto di contestazione, con il limite di un quinquennio in caso di oneri poliennali.
Qualora il valore effettivo dell’affare non risulti determinabile sulla base dei criteri sopra enunciati, lo stesso si considera indeterminabile.[3]
Per gli incarichi iniziati, ma non portati a termine, vengono liquidati i compensi corrispondenti all’opera effettivamente svolta fino alla cessazione del mandato.
Per le gestioni amministrative, giudiziarie o convenzionali, il compenso è liquidato in maniera percentuale, fino ad un massimo del 5% computato sull’ammontare dei beni amministrati o gestiti e parametrato alla durata dell’incarico ed alla sua complessità, tenendo comunque conto dell’impegno profuso dal professionista nell’espletarlo.
Con riferimento, infine, alle trasferte oltre ad essere dovuto il rimborso delle spese vive sostenute, è prevista la liquidazione di un’apposita indennità. Deve a tale scopo tenersi conto del costo del soggiorno documentato dal professionista, con il limite di un albergo a 4 stelle, unitamente ad una maggiorazione per spese accessorie del 10%. Per gli spostamenti in cui è stata utilizzata un’autovettura propria è riconosciuta un’indennità pari ad 1/5 del costo del carburante al litro, oltre alle spese documentate per pedaggio e parcheggio.
2. Decreto Legge 20 marzo 2014, n. 34: disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.
Con il provvedimento segnalato, entrato in vigore il 21 marzo 2014, il Governo è intervenuto in materia di diritto del lavoro introducendo alcune novità per quanto riguarda, in particolare, i contratti a termine, l’apprendistato ed il DURC.
Contratti a tempo determinato.
Con una modifica all’art. 1 del Dlg. n. 368 del 2001, viene eliminata la necessità di indicare nei contratti di lavoro a tempo determinato le esigenze di carattere tecnico, organizzativo o produttivo che consentono l’apposizione del termine al rapporto di lavoro, anche successivamente al primo rapporto a tempo determinato concluso con il lavoratore.[4]
È stato introdotto un limite massimo alle assunzioni a termine: tali contratti non possono, infatti, superare il 20% dell’organico complessivo alle dipendenze del datore di lavoro.
La contrattazione collettiva può intervenire innalzando sia il limite temporale dei 36 mesi, che quello quantitativo del 20% dell’organico.
Nelle imprese ove sono occupati fino a cinque dipendenti potrà essere stipulato un solo contratto a tempo determinato.
Viene inoltre prevista la possibilità di prorogare il rapporto di lavoro a termine fino ad un massimo di otto volte, senza che sia necessario osservare gli intervalli di 10 o 20 giorni necessari, invece, in caso di successione di più contratti, purché non venga superata la durata complessiva di 36 mesi e l’attività da svolgere sia la stessa per la quale il contratto era stato originariamente stipulato.
Nessuna modifica è stata introdotta per quanto riguarda il regime dei rinnovi: una volta concluso un contratto a termine, se ne potrà stipulare un altro ove sia rispettato l’intervallo di 10 o 20 giorni tra un contratto e l’altro, purché la somma di tutti i periodi di lavoro a termine non superi il limite massimo di 36 mesi.
Apprendistato.
L’obbligo della forma scritta rimane solo per quanto riguarda il contratto ed il patto di prova, mentre tale obbligo viene eliminato con riferimento al piano formativo.
Viene abrogata la norma introdotta dal D.L. n. 92/2012 che vincolava l’assunzione di nuovi apprendisti alla conferma, al termine del percorso formativo, di almeno il 50% dei rapporti di apprendistato attivi nell’ultimo triennio.
Nulla è stato, invece, modificato per quanto riguarda il rapporto tra maestranze specializzate e qualificate ed apprendisti alle dipendenze del medesimo datore di lavoro.
Nei contratti di apprendistato per la qualifica ed il diploma professionale, al lavoratore viene riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate, nonché delle ore di formazione nella misura del 35% del monte ore complessivo.
DURC
La verifica della regolarità contributiva nei confronti di INPS, INAIL e delle Casse Edili avverrà esclusivamente attraverso modalità telematiche a norma dell’art. 4 del D.L. 34/2014. La norma sarà applicabile a seguito dell’emanazione di apposito decreto attuativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
L’esito delle interrogazioni così effettuate avrà validità per 120 giorni dalla data di acquisizione e sostituisce ad ogni effetto il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC).
3. Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 5 marzo 2014, n. 5087
AMMISSIBILITA’ DELL’USUCAPIONE DELL’AZIENDA
La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, si è espressa circa l’ammissibilità dell’usucapione dell’azienda.
La Corte, nell’esaminare la questione, ha ritenuto fondamentale partire dalla analisi del concetto di azienda, analizzando quanto previsto dall’art. 2555 c.c., secondo cui “l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”, ed ha coordinato tale definizione con quanto stabilito dagli articoli 810-817 c.c., in cui il legislatore ha racchiuso la disciplina della classificazione dei beni, rilevando come una interpretazione restrittiva di tali disposizioni non consentirebbe di ricondurre l’azienda non solo alle categorie dei beni mobili o immobili, ma anche a quella delle universalità di mobili (l’art. 816 c.c., infatti, presuppone la natura mobiliare dei beni che compongono l’universalità e l’appartenenza di essi ad un unico proprietario).
Deve, poi, osservarsi che, sebbene l’azienda non sia riconducibile di per sé ad alcuna delle tipologie di beni classificate nel nostro ordinamento, l’art. 2555 c.c. consente comunque di considerare la stessa quale complesso di beni oggetto di diritti.
Tale possibilità, tuttavia, non permetterebbe automaticamente di considerare l’azienda come una “cosa” ai sensi dell’art. 1140 c.c. e, dunque, un oggetto suscettibile di possesso e, di conseguenza, di usucapione.
La Corte sul punto precisa, però, come la nozione stessa di cosa non abbia carattere naturalistico, ma piuttosto economico-sociale, ragione per cui sarebbe possibile applicare anche ai rapporti giuridici non aventi natura corporea (tra i quali si ritiene possano essere annoverati i rapporti e le situazioni giuridiche ricomprese nel concetto di azienda)[5] le norme relative alle cose, come avviene, ad esempio, nell’ambito della disciplina della proprietà intellettuale.
Inoltre, la circostanza che l’art. 1140 c.c. restringa il possesso (e l’usucapione) alle cose non può automaticamente lasciare intendere che la sua disciplina sia inapplicabile alle cose immateriali e, pertanto, rende necessario verificare se il codice contenga norme incompatibili con l’affermazione che l’azienda sia suscettibile di possesso e, dunque, di usucapione.
Passando all’esame della nozione di possesso, la Corte rileva come esso consista in una attività analoga all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale sulla cosa: il possesso è dunque ipotizzabile ogni volta che rispetto al bene interessato sia configurabile la proprietà o altro diritto reale.
Essendo pacifico che l’azienda possa essere sia oggetto di proprietà che di diritto reale (usufrutto), è possibile ritenere che chi esercita su di un’azienda un’attività corrispondente a quella del proprietario o dell’usufruttuario ne esercita al contempo il possesso e possa, dunque, usucapirla.
La Corte, a sostegno della propria posizione, rileva come il possesso dell’azienda sia presupposto dall’art. 670 c.p.c., il quale ammette il sequestro di aziende o di altre universalità di beni quando ne sia controversa la proprietà o il possesso e conclude affermando che “ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, l’azienda, quale complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapito”.
4. Corte Costituzionale, sentenza 14 marzo 2014, n. 50
ILLEGITTIMITA’ DELLE NORME SANZIONATORIE PER OMESSA REGISTRAZIONE DEI CONTRATTI DI LOCAZIONE
La Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime le norme di cui ai commi 8 e 9 dell’art. 3 del Decreto Legislativo n. 23/2011 che prevedevano dei meccanismi punitivi per i proprietari che non abbiano registrato il contratto di locazione o lo abbiano registrato indicando un canone di locazione inferiore a quello reale.
Le norme sottoposte all’attenzione della Corte stabilivano, precisamente, che:
“Ai contratti di locazione degli immobili ad uso abitativo, comunque stipulati, che, ricorrendone i presupposti, non sono registrati entro il termine stabilito dalla legge, si applica la seguente disciplina:
- la durata della locazione è stabilita in quattro anni a decorrere dalla data di registrazione, volontaria o d’ufficio;
- al rinnovo si applica la disciplina di cui all’art. 2, comma 1, della citata legge n. 431 del 1998;
- a decorrere dalla registrazione il canone annuo di locazione è fissato in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, in base al 75 per cento dell’aumento degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed operai. Se il contratto prevede un canone inferiore, si applica comunque il canone stabilito dalle parti.
Le disposizioni di cui all’art. 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, ed al comma 8 del presente articolo si applicano anche ai casi in cui:
- nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo;
- sia stato registrato un contratto di comodato fittizio.”
Rispetto a tali disposizioni i giudici delle leggi hanno ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 76 della Costituzione, sotto il profilo del difetto di delega.
I giudici hanno sottolineato come nei casi in cui il Parlamento abbia delegato al Governo il riordino di interi settori normativi, l’eventuale introduzioni di disposizioni innovative rispetto al sistema previgente può considerarsi ammissibile “soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato”.
Nel caso esaminato questa volta si rileva come le norme di cui si chiede la declaratoria di incostituzionalità siano del tutto sfornite di “copertura” da parte della legge di delega, sia per quanto riguarda il profilo oggettivo sia per quanto riguarda gli obiettivi perseguiti dal legislatore delegante.
L’obiettivo perseguito dal Parlamento con la legge di delega (L. n. 42/2009) era, infatti, quello di introdurre “disposizioni volte a stabilire in via esclusiva i principi fondamentali dell’ordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, a disciplinare l’istituzione ed il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, nonché dell’utilizzazione delle risorse aggiuntive e l’effettuazione degli interventi speciali di cui all’articolo 119, quinto comma, della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate nella prospettiva del superamento del dualismo economico del Paese” e disciplinare “i principi generali per l’attribuzione di un proprio patrimonio a comuni, province, città metropolitane e regioni nonché a fine di armonizzare i sistemi contabili e gli schemi di bilancio dei medesimi enti e i relativi termini di presentazione e approvazione, in funzione delle esigenze di programmazione, gestione e rendicontazione della finanza pubblica”.
La disciplina di cui ai commi 8 e 9 dell’art. 3 D.Lg. 23/2011 è, con ogni evidenza, del tutto estranea alle sopra riportate finalità, essendo essa volta ad introdurre la determinazione legale di alcuni elementi essenziali del contratto di locazione ad uso abitativo in situazioni già previste e sanzionate nella normativa di settore.
Né a salvare la norma è valsa l’osservazione dell’Avvocatura dello Stato secondo cui un principio di delega sarebbe costituito dalla disposizione contenuta l’art. 26 della legge che consente l’introduzione di forme premiali per gli enti territoriali che abbiano ottenuto risultati positivi nell’ambito della lotta all’evasione fiscale, non potendo questa rappresentare un criterio per l’esercizio della delega.
In motivazione si osserva, infine, che la delega conferita al Parlamento prevedeva espressamente che la stessa fosse esercita nel rispetto dei principi sanciti dallo statuto del contribuente (L. 212/2012) la quale espressamente prevede, all’articolo 10, che “Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto” con la conseguenza, per la Corte Costituzionale, che l’inosservanza delle norme in materia di registrazione non possono legittimare la novazione del contratto negli aspetti relativi alla durata e alla determinazione del canone. I giudici osservano in conclusione come le disposizioni esaminate siano altresì lesive degli obblighi di informazione previsti sempre dallo statuto del contribuente in quanto la sostituzione degli elementi del contratto avviene in via automatica a seguito della mancata registrazione.
5. Tribunale di Milano, sentenza 5 marzo 2014, n. 3115
TERMINE PER IL DEPOSITO TALEMATICO DEGLI ATTI
Il Tribunale di Milano è intervenuto sulla validità del termine orario delle ore 14.00 per effettuare il deposito telematico degli atti fissato dall’art. 13, comma 3, del Decreto Ministeriale n. 44 del 2011.
Il Tribunale, decidendo sull’eccezione di tardività del deposito delle note di cui al comma 6 dell’art. 183 c.p.c., osserva i termini prescritti dalla disposizione appena citata e dall’art. 190 c.p.c. sono termini a giorni perentori la cui scadenza coincide con lo spirare dell’ultimo giorno utile.
Nel caso di deposito telematico degli atti la legge dispone che lo stesso può considerarsi avvenuto nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia.
Nessun riferimento all’orario di rilascio della ricevuta è contenuto nella legge, tuttavia l’art. 13 comma 3 del decreto ministeriale del 21 febbraio 2011 n. 44, aveva in precedenza previsto che “quando la ricevuta è rilasciata dopo le ore 14 il deposito si considera effettuato il giorno feriale immediatamente successivo”, introducendo in questo modo un termine orario entro il quale inviare il messaggio PEC per il deposito dell’atto.
Sulla validità di tale limite orario il Tribunale di Milano ha osservato che la norma di legge disciplinante il deposito telematico degli atti è senza dubbio prevalente rispetto alla normativa regolamentare: la prima infatti, oltre ad essere una fonte primaria è cronologicamente successiva alla norma regolamentare introduttiva del riferimento temporale (trattasi infatti della legge n. 221/2012 che ha convertito il D.L. 179/2012).
Inoltre, sottolinea il giudice, la previsione di un limite orario nella generazione della ricevuta di avvenuta consegna nell’ambito di un termine da computarsi in giorni non sembra compatibile neppure con la ratio che ispira l’intero sistema di deposito telematico degli atti, che è invece pensato per migliorare l’organizzazione del lavoro nel sistema giustizia e garantire maggiore efficienza.
[1] La relazione illustrativa chiarisce che le spese forfettarie sono calcolate sul compenso totale e non con riferimento a ciascuna fase.
[2] A questo scopo occorre tenere conto dei contrasti giurisprudenziali, della quantità e del contenuto della corrispondenza con il cliente ed altri soggetti coinvolti.
[3] A questi fini i valori indeterminabili si considerano compresi tra i 26.000,00 e i 260.000,00 Euro. Qualora l’oggetto dell’affare sia particolare importanza, per il numero e la complessità delle questioni giuridiche trattate, per la rilevanza dei risultati e degli effetti utili ricavati, il valore si considererà ricompreso nello scaglione fino a 520.000,00 Euro.
[4] La disciplina dell’acausalità è applicabile anche ai contratti di somministrazione.
[5] Il complesso di beni organizzato viene valorizzato e, dunque, considerato altro dalla somma dei beni mobili ed immobili che lo compongono e viene considerato come una entità oggetto di diritti.