Aggiornamento Normativo e Giurisprudenziale 6/2014
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Lingua |
Italiano
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Data di pubblicazione |
20/05/2014
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AGGIORNAMENTO NORMATIVO E GIURISPRUDENZIALE 6/2014
SOMMARIO
1. Conversione in legge del D.L. 34/2014 recante disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.
2. Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 7 maggio 2014, n. 9876
DOMICILIAZIONE IN CANCELLERIA IN CASO DI MANCATA INDICAZIONE DELLA PEC O MALFUNZIONAMENTO DELLA STESSA
3. Tribunale Civile di Udine, sentenza 13 febbraio 2014, n. 188
SORTE DELLA DOMANDA EX ART. 2932 C.C. IN CASO DI FALLIMENTO
4. Cassazione, Quinta Sezione Penale, sentenza 29 aprile 2014, n. 17393
ILLECITA DONAZIONE DI PARTECIPAZIONI SOCIALI
5. Cassazione, Prima Sezione Civile, sentenza 9 maggio 2014, n. 10105
EFFICACIA DEL TRUST LIQUIDATORIO
6. Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di impresa, sentenza 14 marzo 2014, n. 3621
INESIGIBILITA’ DEL RIMBORSO DEL FINANZIAMENTO DA PARTE DEI SOCI
1. Conversione in legge del D.L. 34/2014 recante disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.
Il 15 maggio scorso il Parlamento ha approvato la legge di conversione del D.L.34/2014, apportando al testo licenziato dal Consiglio dei Ministri le modifiche di seguito sinteticamente illustrate.
Per quanto concerne la disciplina dei contratti a tempo determinato, si è scelto di ridurre il numero di proroghe consentito, portandole da 8 a 5, nell’arco dei tre anni di durata massima che può avere un rapporto di lavoro a termine senza indicazione della causale.
Viene previsto, inoltre, che il numero di rapporti di lavoro a tempo determinato che un datore di lavoro può concludere non sia più parametrato all’organico complessivo, bensì al numero di lavoratori a tempo indeterminato in servizio presso l’azienda.
Inizialmente per la violazione di tale limite quantitativo non era prevista alcuna conseguenza, con l’approvazione della legge di conversione viene invece introdotta una sanzione amministrativa pari al 20% o al 50% della retribuzione per ciascun mese di durata del rapporto di lavoro, se i lavoratori assunti in violazione del limite prescritto sono rispettivamente di numero pari o superiore ad uno.
Per quanto riguarda il regime dell’apprendistato, la legge di conversione prevede che il piano formativo debba essere redatto per iscritto, secondo modelli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali.
Inoltre, per le aziende che hanno alle loro dipendenze più di 50 lavoratori vige l’obbligo di stabilizzare almeno il 20% degli apprendisti assunti negli ultimi 36 mesi, salvo che la contrattazione collettiva non abbia espressamente stabilito limiti differenti.
Alle Regioni viene, poi, assegnato un termine di 45 giorni dalla comunicazione dell’avvenuta instaurazione di un rapporto di apprendistato, per dare a sua volta comunicazione delle modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica.
Il testo di legge assegna, inoltre, 60 giorni di tempo ai ministeri competenti per l’emanazione di un decreto interministeriale che regolamenti l’operatività del DURC telematico.
Quanto ai contratti di solidarietà viene, infine, affidato ad un emanando decreto ministeriale il compito di definire le tipologie di aziende che potranno beneficiare di una provvisoria riduzione degli obblighi contributivi e viene fissata al 35% la riduzione dei contributi previdenziali per le aziende dove tali tipi di contratto sono stipulati con una riduzione di orario superiore al 20%, eliminando così qualsiasi distinzione a livello territoriale.
2. Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 7 maggio 2014, n. 9876
DOMICILIAZIONE IN CANCELLERIA IN CASO DI MANCATA INDICAZIONE DELLA PEC O MALFUNZIONAMENTO DELLA STESSA
Con la pronuncia segnalata la Corte interviene sul tema dell’obbligo esistente in capo all’amministrazione di effettuare tutti gli avvisi e le notificazioni ai difensori costituti nel procedimento all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato in atti, in particolare nell’ipotesi in cui, nell’ambito di un ricorso per Cassazione, non si sia provveduto ad eleggere domicilio in Roma.
Nella sentenza i giudici di legittimità operano una importante distinzione tra la normativa in materia di domiciliazione applicabile prima e dopo l’entrata in vigore della legge 189/2011 (legge di stabilità 2012).
La disciplina antecedente al citato intervento normativo prevedeva, infatti, unicamente la possibilità che gli avvisi e le comunicazioni venissero effettuate dalla cancelleria all’indirizzo di posta elettronica o al numero di fax indicato dal difensore nei propri atti, senza introdurre un sistema preferenziale per quanto concerne le modalità di comunicazione degli avvisi né intervenire sul tema della domiciliazione.
Attraverso la legge di stabilità 2012, invece, il legislatore ha provveduto a modificare il testo dell’art. 366 c.p.c. stabilendo che “se il ricorrente non ha eletto domicilio in Roma, ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di Cassazione”, così introducendo per l’amministrazione un vero e proprio obbligo di utilizzo dei canali telematici di comunicazione in luogo della notificazione ex lege presso la stessa cancelleria.
È evidente, dunque, che per il periodo antecedente alla modifica normativa appena indicata, l’utilizzo della PEC del difensore per le comunicazioni della cancelleria era solo facoltativo, operando in assenza di elezione, la domiciliazione ex lege presso gli uffici della Corte di Cassazione; con la modifica del 2011, tale domiciliazione interviene solo nelle ipotesi residuali in cui il difensore abbia omesso di comunicare nel proprio ricorso l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicata al proprio ordine e nei casi di mancata consegna del messaggio per cause imputabili al destinatario.
L’evoluzione normativa in tema di processo telematico ad oggi è poi giunta a prevedere espressamente, per effetto del D.M. n. 44/2011, del D.L. n. 179/2012 e della legge n. 228/2012 e non più solo in via interpretativa, che le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria siano obbligatoriamente effettuate esclusivamente per via telematica alla PEC del difensore e che “le notificazioni e le comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario.”
3. Tribunale Civile di Udine, sentenza 13 febbraio 2014, n. 188
SORTE DELLA DOMANDA EX ART. 2932 C.C. IN CASO DI FALLIMENTO
Il tribunale friulano, pronunciandosi sul tema del contratto preliminare di compravendita, affronta la questione relativa alla sorte, a seguito della dichiarazione di fallimento del venditore, della domanda giudiziale volta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto che sia stata debitamente trascritta.
Nella consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione sul punto si afferma che se la domanda giudiziale ex art. 2932 c.c. è stata trascritta prima della dichiarazione di fallimento del promittente venditore, la sentenza di accoglimento può validamente essere opposta alla massa dei creditori, senza che il curatore possa valersi del potere di scioglimento dei contratto di cui all’art. 72 L.F.
Gli effetti della sentenza costituiva potranno, quindi, retroagire alla data di trascrizione della domanda giudiziale, poiché in tale ipotesi si realizzerà l’effetto prenotativo che la legge assegna a tale tipo di iscrizione e che consente, in ossequio ai principi del giusto processo e della sua ragionevole durata, che la posizione delle parti ed i diritti da queste fatti valere non subiscano conseguenze e pregiudizi dovuti al tempo necessario per la definizione del procedimento.
4. Cassazione, Quinta Sezione Penale, sentenza 29 aprile 2014, n. 17393
ILLECITA DONAZIONE DI PARTECIPAZIONI SOCIALI
Con la sentenza che si segnala la Cassazione censura la condotta dell’amministratore e azionista di controllo di una società quotata che, in vista dell’assemblea degli azionisti nel corso della quale doveva esser deliberata un’azione di responsabilità a suo carico, aveva donato parte delle proprie partecipazioni a dei familiari allo scopo di eludere l’esclusione dal voto del socio amministratore e così influenzare l’esito della deliberazione.
Il reato contestato all’amministratore è quello di cui all’art. 2636 c.c., norma che punisce “chiunque, con atti simulati o fraudolenti, determina la maggioranza in assemblea, allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”.
Nel caso di specie i giudici di legittimità hanno ritenuto essersi concretato l’elemento materiale del citato reato, essendosi verificata la condotta tipizzata dalla norma incriminatrice che richiede sia l’elemento della frode che quello della simulazione, ed essendo stato leso il diritto al corretto funzionamento dell’organo assembleare, essendoci stata una concreta influenza sull’operato dell’assemblea.
La Corte, in particolare, osserva come in tali fattispecie non è possibile fare ricorso esclusivamente alla nozione civilistica di “simulazione”, poiché la condotta penalmente rilevante ricomprende una serie più ampia di ipotesi, tra cui vanno ad inserirsi gli atti fraudolenti e sottolinea come la valutazione circa la liceità di una condotta vada operata avendo riguardo alla ragione per la quale una atto viene compiuto.
Infatti, ciò che il giudice è chiamato a rilevare è anche l’effetto che atti negoziali, formalmente pienamente leciti, sono in concreto volti ad ottenere perché pensati per creare situazioni artificiose che, aggirando previsioni normative, sono in grado di interferire sulla regolare formazione delle delibere assembleari.
Conseguentemente anche un atto di donazione deve essere analizzato andando a verificare se la finalità con esso perseguita sia ultronea rispetto alla semplice disposizione patrimoniale con esso realizzata. Tale verifica non può pertanto limitarsi all’accertamento della prospettazione, nell’atto esaminato, di una realtà giuridica differente da quella effettiva, poiché, una simile ipotesi potrebbe considerarsi valida solo se il legislatore, nel descrivere gli elementi costitutivi del reato, avesse fatto riferimento ai soli atti simulati e non anche, come invece nel caso esaminato, a quelli fraudolenti.
Con riferimento all’elemento dell’ingiusto profitto indicato nella norma incriminatrice, la Cassazione osserva, infine, come tale requisito possa integrarsi nella facoltà di rimuovere la prospettiva immediata di una azione di responsabilità, non dovendo il profitto assumere in un simile contesto necessariamente carattere patrimoniale.[1]
5. Cassazione, Prima Sezione Civile, sentenza 9 maggio 2014, n. 10105
EFFICACIA DEL TRUST LIQUIDATORIO
La questione affrontata nella sentenza in esame riguarda la dichiarazione di fallimento di una società cancellata dal registro delle imprese con riferimento alla quale la competente Corte d’Appello aveva deciso per l’operatività dell’art. 10 della Legge Fallimentare, norma secondo cui gli imprenditori possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, sempre che l’insolvenza si sia manifestata prima di tale data o entro l’anno successivo.
Nel particolare caso esaminato dalla Corte, a seguito della messa in liquidazione della società, era stato costituito un trust liquidatorio nel quale veniva conferita l’intera azienda con conseguente cancellazione della società dal registro delle imprese.
Nell’impugnare la sentenza emessa all’esito del gravame, la società fallita aveva rilevato come erroneamente la Corte d’Appello avesse ritenuto legittimato a partecipare nel procedimento per la dichiarazione di fallimento unicamente il liquidatore, nonostante questa fosse ormai stata cancellata dal registro delle imprese e non fosse stato coinvolto nel procedimento anche il trust con conseguente violazione degli articoli 101 e 102 c.p.c.
La Corte ha ritenuto che nel caso esaminato non vi sia stata alcuna violazione di detti articoli in quanto il trust[2] non può essere considerato un soggetto giuridico a sè stante, ma va inteso solo quale insieme di beni e rapporti con effetto di segregazione patrimoniale.
Infatti secondo i giudici di legittimità “il trust non è un soggetto giuridico dotato di una propria personalità ed il trustee è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, non quale “legale rappresentante” di un soggetto (che non esiste), ma come soggetto che dispone del diritto. L’effetto proprio del trust validamente costituito è dunque quello non di dar vita ad un nuovo soggetto, ma unicamente di istituire un patrimonio destinato al fine prestabilito”.
Dopo essersi espresso circa la legittimazione del trust a stare in giudizio, la sentenza prosegue analizzando la particolare tipologia di trust coinvolto nella vicenda sottoposta all’attenzione dei giudici e che dagli stessi viene definito come trust liquidatorio.
Con tale espressione la corte intende riferirsi a quei trust istituiti con la finalità di liquidare il patrimonio sociale in essi segregato e che possono dar luogo a tre tipologie di situazioni differenti: “a) il trust viene concluso per sostituire in toto la procedura liquidatoria, al fine di realizzare con altri mezzi il risultato equivalente di recuperare l’attivo, pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società; b) il trust è concluso quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d’impresa (cd. trust endo-concorsuale); c) il trust viene a sostituirsi alla procedura fallimentare e impedisce lo spossessamento dell’imprenditore insolvente (cd. trust anti-concorsuale)”.
Sebbene la ricerca di soluzioni negoziali alternative al fallimento sia vista con favore dal legislatore, i giudici di legittimità ritengono tuttavia necessario verificare, per ogni singola ipotesi, che il trasferimento dell’azienda sociale in un trust non sia elusivo del procedimento concorsuale e degli interessi cui esso è preposto: andrà dunque verificata la causa concreta del regolamento del trust e ove essa vada ricondotta alla finalità di segregare i beni sociali per sottrarli alle procedure pubblicistiche (tra cui il fallimento) volte a garantire la par condicio creditorum, la stessa non potrà trovare tutela nel nostro ordinamento.[3]
Il trust, infatti, per poter essere riconosciuto, dovrà essere compatibile con le norme inderogabili e di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali.
Il giudice chiamato a pronunciare la sentenza di fallimento, condotta tale indagine, dovrà dunque procedere, incidenter tantum, al disconoscimento del trust liquidatorio che abbia la sola funzione di eludere le disposizioni concorsuali. Il trust deve perciò essere disconosciuto ogni volta in cui sia dichiarato il fallimento per essere accertata l’insolvenza del soggetto, nel caso in cui tale insolvenza fosse preesistente all’atto istitutivo del trust stesso.
La non riconoscibilità del trust, inoltre, permane anche nel caso in cui, come nell’ipotesi esaminata dalla Cassazione, il trust sia stato istituito proprio per tutelare i creditori dell’impresa attraverso la segregazione patrimoniale e la liquidazione, non potendo tale strumento essere considerato equivalente alla procedura fallimentare.
Deve pertanto concludersi che “il trust liquidatorio in presenza di uno stato di preesistente insolvenza non è riconoscibile nell’ordinamento italiano, onde il negozio non ha l’effetto di segregazione desiderato; l’inefficacia non è esclusa né dal fine dichiarato di provvedere alla liquidazione armonica della società nell’esclusivo interesse del ceto creditorio (od equivalenti), né dalla clausola che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, preveda la consegna de beni al curatore.
Se l’atto istitutivo del trust è tamquam non esset, occorre poi considerare quale sorte abbia il trasferimento dei beni o dell’azienda operato in favore del tustee”.
Sul punto deve, dunque, osservarsi che “dal momento che il negozio istitutivo del trust si pone come antecedente causale (almeno dal punto di vista logico-giuridico, anche qualora contestuale) dell’attribuzione patrimoniale operata con l’atto di trasferimento dei beni, ove non riconoscibile il primo diviene privo di causa il secondo (nullo ex art. 1418, secondo comma, prima parte, c.c. perché operato in esecuzione di negozio non riconoscibile).
In tal modo, il curatore, per effetto dello spossessamento fallimentare che priva il fallito della disponibilità di suoi beni, tra i quali sono da ricomprendere tutti i diritti patrimoniali inefficacemente trasferiti, può procedere all’apprensione di essi”.
6. Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di impresa, sentenza 14 marzo 2014, n. 3621
INESIGIBILITA’ DEL RIMBORSO DEL FINANZIAMENTO DA PARTE DEI SOCI
La sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano si è pronunciata sul tema della restituzione dei finanziamenti effettuati dai soci in favore della S.r.l., fornendo una precisa interpretazione della norma di cui all’art. 2467 c.c.
In particolare il giudice ha osservato che l’inesigibilità del credito del socio, ai sensi dell’art. 2467 c.c., può essere opposta solo nelle ipotesi in cui il finanziamento sia stato disposto ed il suo rimborso richiesto “in presenza di una situazione di specifica crisi della società”. La norma richiamata infatti mira ad evitare che si crei una situazione per cui i soci, non conferendo capitale, ma facendo credito alla propria società, consentano alla stessa di proseguire l’attività addossando il rischio di impresa su tutti gli altri creditori della s.r.l.
Pertanto, precisa il Tribunale “in presenza dei presupposti di postergazione di cui al secondo comma dell’art. 2467 c.c., sia al momento di esecuzione del finanziamento sia al momento di richiesta di rimborso da parte del socio finanziatore, gli amministratori sono tenuti ad eccepire la condizione di inesigibilità del credito derivante dalla postergazione al socio richiedente il rimborso del finanziamento laddove al momento del richiesto rimborso sussistano creditori “ordinari” (vale a dire creditori non soci, soggetti allo stesso vincolo) titolari di crediti scaduti e non soddisfatti o comunque non ancora scaduti” e dal bilancio risultino inequivocabili elementi indicativi di crisi ed insolvenza della società.
[1] La Cassazione ha più volte evidenziato come la nozione di “ingiusto profitto” comprenda “qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intenda conseguire e che non si collega ad un diritto, ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso (Cass., sez. II, sentenza 31 marzo 2008, n. 16658).
[2] La Corte precisa che ai sensi dell’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, resa esecutiva in Italia con la legge n. 364 del 1989, “per trust d’intendono «i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato», caratterizzato dal fatto che « i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee», che ha il potere e l’obbligo, «di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee»”.
[3] Sul punto la Corte precisamente precisa: “Il trust, sottraendo il patrimonio o l’azienda al suo titolare ed impedendo una liquidazione vigilata – in quanto rimette per intero la liquidazione dell’attivo alla discrezionalità del trustee – determina l’effetto, non accettabile per il nostro ordinamento, di sottrarre il patrimonio del debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione delle crisi d’impresa ed all’attivo fallimentare della società settlor il patrimonio stesso”.