Aggiornamento Normativo e Giurisprudenziale 3/2015
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Lingua |
Italiano
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Data di pubblicazione |
06/07/2015
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AGGIORNAMENTO NORMATIVO E GIURISPRUDENZIALE 3/2015
SOMMARIO
1. Legge n. 55 del 6 maggio 2015: DISPOSIZIONI IN MATERIA DI SCIOGLIMENTO O DI CESSAZIONE DEGLI EFFETTI CIVILI DEL MATRIMONIO, NONCHE’ DI COMUNIONE TRA I CONIUGI.
2. Cassazione Civile, Sezione Prima, sentenza 29 gennaio 2015, n. 1725
Insolvenza e segnalazione a sofferenza alla centrale rischi
3. Cassazione Civile, Sezione Prima, sentenza 25 marzo 2015, n. 6020
Risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive e gravità degli inadempimenti
4. Cassazione Civile, Sezione Prima, sentenza 8 aprile 2015, n. 7003
Vendita di quote sociali in violazione del diritto di prelazione e risarcimento del danno
5. Cassazione Civile, sentenza 20 maggio 2015, n. 10289
Responsabilità del legale per la strategia difensiva concordata con il cliente
6. Cassazione Civile, ordinanza 26 maggio 2015, n. 10822
Liquidazione delle spese in caso di mancato deposito della nota spese
1. Legge n. 55 del 6 maggio 2015: DISPOSIZIONI IN MATERIA DI SCIOGLIMENTO O DI CESSAZIONE DEGLI EFFETTI CIVILI DEL MATRIMONIO, NONCHE’ DI COMUNIONE TRA I CONIUGI.
Lo scorso 6 maggio è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge che consente di procedere per lo scioglimento del matrimonio, ovvero per la cessazione di suoi effetti civili, non più nel termine di tre anni dalla data di comparizione dei coniugi innanzi al presidente del Tribunale nella procedura di separazione personale, ma in tempi considerevolmente più brevi.
Con l’entrata in vigore di detto provvedimento, i tempi di attesa per proporre la domanda di divorzio scendono a 6 mesi nel caso di separazione consensuale (anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale) e a 12 mesi nel caso di separazione giudiziale. Tali termini decorrono dalla data di avvenuta comparizione dei coniugi dinanzi al presidente del Tribunale.
Nulla dice il testo di legge in merito alle separazioni concluse a seguito di una convenzione di negoziazione assistita da avvocati o concluse innanzi all’ufficiale dello stato civile.
Con riferimento a tali ipotesi si è portati a ritenere che il tempo di attesa per proporre la domanda di divorzio sia quello semestrale e che lo stesso inizi a decorrere dalla data di formalizzazione dell’accordo al termine della negoziazione assistita o davanti l’ufficiale dello stato civile.[1]
Con il medesimo testo di legge è stata introdotta anche una modifica all’art. 191 del codice civile con la quale si è stabilito che “nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato”, precisando quanto già disposto dalla stessa norma.
I nuovi termini in materia di divorzio sono applicabili ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge ed anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il presupposto risulti ancora pendente alla medesima data.
2. Cassazione Civile, Sezione Prima, sentenza 29 gennaio 2015, n. 1725
Insolvenza e segnalazione a sofferenza alla centrale rischi
Con la pronuncia che si segnala la Corte di Cassazione interviene in tema “segnalazione a sofferenza alla Centrale Rischi”.
La Centrale Rischi, o più precisamente “Servizio per la centralizzazione dei rischi creditizi”, è un servizio affidato alla Banca d’Italia nell’ambito dei poteri di vigilanza che a questa sono affidati dal Testo Unico Bancario (L. 385/1993), e costituisce uno strumento di ausilio agli intermediari per la valutazione del merito creditizio della loro clientela, attraverso il quale viene perseguito il fine di assicurare la stabilità del sistema creditizio.
Il servizio della Centrale Rischi è regolato dalle istruzioni specificamente emanate dalla stessa Banca d’Italia e trasfuse nella circolare 139/91; tali istruzioni, al fine di contenere i rischi per gli operatori del settore del credito, prevedono un sistema di segnalazioni delle posizioni dei soggetti che hanno ricevuto affidamenti.
Ciascun intermediario è, dunque, tenuto a segnalare l’ipotesi in cui l’esposizione di ogni cliente raggiunga o superi i limiti previsti da una delle categorie di rischio censite, mettendo così in condizione l’intero sistema del credito di conoscere la posizione globale di rischio del soggetto finanziato.
Tra le categorie di rischio previste vi è quella della “sofferenza” riconducibile a “l’intera esposizione per cassa nei confronti di soggetti in stato di insolvenza, anche non accertato giudizialmente, o in situazioni sostanzialmente equiparabili, indipendentemente dalle eventuali previsioni di perdita formulate dalle aziende”[2]
Le istruzioni precisano, inoltre, che l’ “appostazione a sofferenza implica una valutazione da parte dell’istituto segnalante della complessiva situazione finanziaria del cliente e non può scaturire automaticamente da un mero ritardo di quest’ultimo nel pagamento del debito”.[3]
La sofferenza, dunque, non è collegata ad una mancanza di liquidità strutturale e può sussistere anche qualora il patrimonio del debitore consenta ancora probabilità di recupero e solo un pericolo di insolvenza.
Lo stato di insolvenza cui fanno riferimento le istruzioni non deve essere identificato con l’insolvenza fallimentare, risultando altrimenti privo di ragione l’obbligo di segnalazioni del debitore già in stato di decozione.
La segnalazione ha, infatti, un senso solo se la stessa interviene in un momento in cui i debitori possono ancora predisporre piani di rientro o di ristrutturazione che, attraverso il ritorno all’equilibrio finanziario, consentano a questi di onorare le obbligazioni assunte.
Lo stato di insolvenza che può, quindi, dare luogo alla segnalazione a sofferenza è quello di posizioni che “pur non potendo qualificarsi di totale incapacità economica, denotano una sensibile difficoltà nella gestione e nel controllo dell’equilibrio economico-finanziario del soggetto e fanno temere la possibilità, anche non immediata di un futuro dissesto”, dovendo, in ogni caso, la valutazione fare riferimento alla capacità del cliente di adempiere le proprie obbligazioni con regolarità e senza anomalie.
3. Cassazione Civile, Sezione Prima, sentenza 25 marzo 2015, n. 6020
Risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive e gravità degli inadempimenti
La Cassazione ha esaminato la questione della risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive per inadempimento delle parti in una vicenda relativa ad un contratto di affitto di azienda nell’esecuzione del quale, alla violazione del patto di non concorrenza da parte del concedente, corrispondeva l’inadempimento all’obbligazione di pagare i canoni d’affitto da parte dell’affittuario.
Con riferimento al rilevo di inesatta applicazione del disposto dell’art. 1453 c.c. per non aver la corte di merito operato una corretta comparazione tra gli inadempimenti posti in essere da ciascuna delle parti, sollevato dalla concedente, i giudici di legittimità hanno osservato come il giudizio sulla gravità della condotta antidoverosa delle parti non può essere operato avendo esclusivamente riguardo alla collocazione temporale di dette condotte.
La Corte, infatti, ha ritenuto di maggiore importanza la violazione del patto di non concorrenza da parte della concedente, rispetto al mancato pagamento dei canoni da parte dell’affittuaria, nonostante tale inadempimento sia iniziato prima che la controparte avviasse la nuova attività commerciale in contrasto a quanto previsto nel contratto di affitto d’azienda, sancendo il diritto per l’affittuario ad ottenere il risarcimento del danno per il calo di fatturato conseguente all’illecita attività commerciale della propria controparte contrattuale.
Sul piano degli effetti della risoluzione del contratto per inadempimento nei rapporti di durata, i giudici hanno altresì avuto occasione di rilevare come, a norma dell’art. 1458 c.c., l’effetto liberatorio si ha solo per le obbligazioni relative alla prosecuzione del rapporto, non incidendo sulle prestazioni eseguite da una delle parti anteriormente alla risoluzione, per le quali permane, dunque, il diritto ad ottenere la controprestazione.
La controprestazione, in tali casi, può dunque essere legittimamente pretesa unicamente da chi abbia concretamente reso la propria prestazione: l’irretroattività della liberazione riguarda necessariamente solo le prestazioni rese, non quelle rimaste ineseguite, con riferimento alle quali permane l’esigenza di rispetto della sinallagmaticità dei rapporti tra le parti.
4. Cassazione Civile, Sezione Prima, sentenza 8 aprile 2015, n. 7003
Vendita di quote sociali in violazione del diritto di prelazione e risarcimento del danno
Con la sentenza dello scorso 8 aprile la Cassazione è intervenuta sul tema della violazione del diritto di prelazione nell’acquisto di quote sociali, tornando a sottolineare come la prelazione incida unicamente sulla legittimazione a disporre del diritto nei confronti dei terzi, ma non possa determinare l’invalidità del negozio di trasferimento.
Il vincolo della prelazione, infatti, impegna i soci tra di loro e la società (se ve ne è menzione nello statuto), ma non può comportare la nullità del trasferimento della partecipazione sociale dal socio cedente al terzo cessionario.
Il recepimento della clausola sulla prelazione in statuto fa naturalmente sì che la stessa assuma valore anche per la società: in questo modo l’interesse perseguito attraverso la prelazione non rimane solo un interesse proprio ed individuale di ciascun socio, ma diviene un interesse comune poiché consente di assicurare l’omogeneità della compagine sociale.[4]
Chiarito ciò, la Corte osserva come il socio che lamenti la violazione del diritto di prelazione non possa limitarsi a provare l’esistenza del relativo patto e la sua espressa previsione anche in statuto, ma deve fornire la prova che da siffatta violazione abbia leso il suo interesse individuale a rendersi acquirente della partecipazione ceduta.
Il socio infatti non può far valere quelli che sono interessi propri della società (o interessi comuni della compagine sociale nel suo complesso), come quello relativo al rispetto del procedimento di cessione delle partecipazioni.
Conseguenza della violazione del patto di prelazione è per il socio la possibilità di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito, non essendo configurabile alcun diritto al riscatto della partecipazione nei confronti del terzo acquirente: quello del riscatto, infatti, non è per il nostro ordinamento un rimedio di carattere generale, ma consiste in una forma di tutela che la legge riconosce espressamente solo in casi specifici.
5. Cassazione Civile, sentenza 20 maggio 2015, n. 10289
Responsabilità del legale per la strategia difensiva concordata con il cliente
La Cassazione torna a pronunciarsi sul tema della responsabilità professionale dell’avvocato soffermandosi, in particolare, sull’ipotesi di strategia difensiva, rivelatasi poi inefficace, concordata con il cliente.
Nel caso di specie, la condotta scorretta imputata al difensore era consistita nell’aver chiamato in causa un terzo, nonostante fosse prevedibile che questo avrebbe sollevato l’eccezione di prescrizione della domanda avanzata nei suoi confronti e che sussistesse il concreto rischio che il proprio assistito venisse condannato alle spese per un importo maggiore rispetto alla somma oggetto della domanda.
I giudici di legittimità sottolineano come la responsabilità professionale dell’avvocato sia sanzionabile in ogni caso in cui vi sia una violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, c.c., precisando altresì come “tale violazione, ove consista nell’adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, non è esclusa né ridotta per la circostanza che l’adozione di tali mezzi sia stata sollecitata dal cliente stesso, essendo compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell’attività professionale (Cass. 28 ottobre 2004, n. 20869), peraltro essendo tenuto l’avvocato ad assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, non solo al dovere di informazione del cliente ma anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione dello stesso ed essendo tenuto, tra l’altro, a sconsigliare il cliente dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole (arg. Ex Cass. 30 luglio 2004, n. 14597).”
6. Cassazione Civile, ordinanza 26 maggio 2015, n. 10822
Liquidazione delle spese in caso di mancato deposito della nota spese
Sulla questione relativa alla liquidazione delle spese di lite, in caso di mancato deposito della nota spese, la Cassazione si è di recente pronunciata sottolineando l’importanza del fatto che la liquidazione venga, in ogni caso, compiuta in modo da consentire alla parte interessata un controllo sull’entità e sulla correttezza delle somme riconosciute.
Per consentire siffatto controllo è, dunque, necessario che la liquidazione avvenga sulla base degli atti di causa che devono però essere indicati specificamente.
Nell’affrontare il tema, i giudici di legittimità hanno affermato incidentalmente che, in caso di regolare deposito della nota spese e conseguente liquidazione globale delle spese stesse, si deve presumere che il giudicante abbia inteso pronunciarsi in conformità a quanto richiesto dal difensore.
[2] Art. 5, comma 1, cap. II, sez. II delle istruzioni.
[3] Art. 5, comma 2, cap. II, sez. II delle istruzioni.
[4] In questo senso si veda Cassazione, 14 gennaio 2005, n. 691
File Allegati
Cass._10289_2015.pdf
Cass._ord. 10822_2015.pdf
Cass._6020_2015.pdf
Cass._7003_2015.pdf
Cass._1725_2015.pdf