Aggiornamento Normativo e Giurisprudenziale 4/2015
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Lingua |
Italiano
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Data di pubblicazione |
22/07/2015
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AGGIORNAMENTO NORMATIVO E GIURISPRUDENZIALE 4/2015
SOMMARIO
1. L’art. 342 c.p.c. riformato – la formulazione dei motivi dell’appello.
2. Tribunale di Roma, sezione III, sentenza 4 marzo 2015
Il recesso nella snc
3. Tribunale di Firenze, Volontaria Giurisdizione, decreto presidenziale 2 luglio 2015
Necessità dell’indicazione del titolo per l’omologazione della mediazione senza assistenza del legale
1. L’art. 342 c.p.c. riformato – la formulazione dei motivi dell’appello.
La riforma dell’art. 342 c.p.c., introdotta con il D.L. n. 83/2012, intervenendo sulla formulazione dei motivi di appello, ha previsto che questi, a pena di inammissibilità, debbano contenere:
- l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice del primo grado;
- l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
La disposizione richiamata ha avuto applicazione, nella sua nuova formulazione, per i procedimenti introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui è stata richiesta la notifica successivamente al giorno 11 settembre 2012.
Essendo trascorsi poco meno di tre anni dall’entrata in vigore della nuova normativa, non sono molte, al momento, le sentenze disponibili emesse in applicazione di questa e che consentono di valutare l’efficacia della riforma.
Tra i provvedimenti pronunciati in materia dalle corti di merito, si segnala una sentenza del gennaio di quest’anno della Corte di Appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto che ha affrontato il problema proprio della inammissibilità dell’appello in relazione alla nuova formulazione dell’art. 342 c.p.c.[1]
Nella sua motivazione la Corte precisa come la nuova disciplina imponga all’appellante di individuare, oltre agli errori di diritto per i quali la sentenza sia viziata, anche il nesso causale tra l’errore denunciato e la decisione impugnata.
Ciò comporta che l’appello non possa più essere considerato come uno strumento di gravame con il quale riformulare ogni eccezione e domanda del primo grado, ma vada inteso come un mezzo di impugnazione in senso stretto che deve avere ad oggetto la pronuncia di primo grado ed i vizi di questa.
I giudici pugliesi colgono, poi, lo stretto collegamento che il legislatore ha voluto intrecciare tra l’art. 342 e l’articolo 348 bis, recependo le indicazioni espresse dal Consiglio Superiore della Magistratura: il CSM aveva, infatti, da tempo suggerito l’opportunità di prevedere che l’atto di appello debba contenere a pena di inammissibilità “un vero e proprio progetto alternativo di sentenza”.
Per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità sul punto, si segnala una recente pronuncia della Corte di Cassazione Sezione Lavoro che esaminando le modifiche apportate dal legislatore all’art. 434 c.p.c. (disposizione novellata in maniera analoga all’art. 342 c.p.c.) ha osservato come l’obiettivo perseguito sia stato quello di migliorare l’efficienza delle impugnazioni.[2]
I giudici di legittimità osservano anche come il quadro sia costituzionale che della normativa sovranazionale abbia sempre spinto affinché il giudizio di appello assuma la funzione di mezzo correttivo e finalizzato ad assicurare la conformità della decisione di primo grado alla legge ed alle risultanze processuali, sanzionando al contempo le pratiche che, attraverso l’abuso del processo, diano luogo ad una ingiustificata dilatazione dei tempi del processo ed un ingiustificato aggravio del lavoro del giudice.
Nella redazione dell’atto di appello occorre, pertanto, fare in modo che sia agevolmente identificabile l’ambito del giudizio di gravame, attraverso l’esatta individuazione dei capi della sentenza che si ritengono meritevoli di censura insieme ai passaggi argomentativi che sono alla base di questi.
Allo stesso tempo occorre, altresì, proporre un percorso logico-argomentativo alternativo a quello adottato dal giudice di prime cure, chiarendo come tale altro percorso sia idoneo a determinare le modifiche alla sentenza richieste.
Nella pronuncia si precisa, inoltre, che con il termine “indicazione” si può presumere che il legislatore non abbia imposto alle parti di osservare una particolare forma, ma ha inteso unicamente precisare che i contenuti dell’atto di appello siano articolati in modo chiaro ed esauriente, oltre che pertinente.
Ciò non impedisce che nell’atto di appello si possano riproporre argomentazioni già svolte in primo grado, a patto che queste siano funzionali a supportare le censure proposte nei confronti di specifici passaggi argomentativi della sentenza impugnata.
2. Tribunale di Roma, sezione III, sentenza 4 marzo 2015
Il recesso nella snc
Nella sentenza che si segnala il Tribunale di Roma ha affrontato, sotto diversi profili, il tema del recesso del socio nella società a nome collettivo.
Il primo profilo esaminato riguarda la possibilità di recedere con preavviso dalla società costituita con una durata ben determinata.
Nel caso di specie la durata della società era stata stabilita fino al 31 dicembre 2200: il giudice ha ritenuto tale durata un tempo eccessivamente superiore alla aspettative di vita media tanto da poter essere assimilata ad una durata a tempo indeterminato, con la conseguente possibilità da parte dei soci di recedere a norma dell’art. 2285 comma 1, dando un preavviso di 3 mesi.
Quanto alla comunicazione del recesso, viene precisato che questo altro non è che un atto unilaterale recettizio che, in quanto tale, non deve rispettare nessun requisito di forma e, pertanto, può essere dato anche oralmente. In tal caso occorre, tuttavia, sottolineare come la prova della sua reale comunicazione e del relativo recepimento debba essere data, in maniera rigorosa, dal soggetto che intenda uscire dalla compagine sociale.
La circostanza che una delle parti abbia inteso recedere dalla società non può essere provata desumendola dal fatto che i soci abbiano incaricato professionisti di loro fiducia al fine di predisporre delle perizie di stima del patrimonio sociale per giungere alla determinazione del valore delle quote.
Ciò, rileva il giudice, non consente di ritenere pienamente provato l’intervenuto recesso, essendo tutt’al più possibile desumere, da un simile comportamento, che fossero in atto delle trattative tra soci, nell’ambito delle quali gli stessi avevano ritenuto opportuno far valutare la consistenza della società nell’eventualità che intervenisse un recesso.
Una volta intervenuto il recesso, questo diviene, poi, efficace solo dopo che siano trascorsi tre mesi dalla sua comunicazione, come previsto dall’art. 2285, comma 3, c.c.
Da ciò consegue che la liquidazione del valore della quota del socio uscente deve essere effettuata con riferimento alla data di efficacia del recesso sulla base di quanto disposto all’art. 2289, comma 2, c.c.
La liquidazione deve essere corrisposta nel termine di sei mesi dallo scioglimento del rapporto societario: da tale data decorrono, dunque, gli eventuali interessi dovuti ai sensi degli art. 1224 e 1219 n. 3 c.c., trattandosi di obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, da eseguirsi al domicilio del creditore.[3]
Legittimato passivo rispetto alla domanda di liquidazione della quota di società di persone è solo la società e non anche gli altri soci rimasti nella compagine sociale: la solidarietà tra soci è infatti stabilita a favore dei soli terzi che vantino crediti verso la società e non è applicabile alle obbligazioni che la società ha nei confronti dei soci come conseguenza della regola per cui, nei rapporti interni, l’obbligazione solidale si divide tra la pluralità dei debitori.
3. Tribunale di Firenze, Volontaria giurisdizione, decreto presidenziale 2 luglio 2015
Necessità dell’indicazione del titolo per l’omologazione della mediazione senza assistenza del legale
L’art. 12 del D.Lg. 28/2010 prevede che “ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché l’iscrizione di ipoteca giudiziale”.
La legge istitutiva della mediazione affida agli avvocati il compito di attestare e certificare la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.
Sempre a norma del suindicato art. 12, nell’ipotesi in cui, invece, le parti non siano state assistite da avvocati, l’accordo di mediazione deve essere omologato con decreto del presidente del tribunale, il quale dovrà accertare la regolarità formale e il rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico.
In applicazione del disposto appena citato il presidente del tribunale di Firenze ha negato l’omologazione di un accordo di mediazione concluso senza l’assistenza di avvocati.
Il giudice fiorentino ha, infatti, rilevato che nel caso sottoposto al suo esame fosse del tutto omessa nel verbale di mediazione l’indicazione del titolo posto a base dell’accordo sulla liquidazione del debito di una delle due parti aderenti alla procedura.
Trattandosi di un accordo dalla natura astratta e non titolata, il tribunale ha ritenuto che non vi fossero elementi sufficienti per verificare la conformità dell’accordo all’ordine pubblico e alle norme imperative, richiedendo alla parte istante le informazioni mancanti.
Nonostante la produzione di copia della domanda di mediazione (nella quale non veniva indicata la materia del contendere né ulteriori dettagli circa l’accordo), il tribunale ha negato definitivamente l’omologazione per la radicale mancanza di ogni indicazione circa la causa delle pretese creditorie di cui sarebbe stata oggetto la mediazione.
Nel pronunciarsi in tal senso, il giudice ha altresì precisato che, pur volendo tener conto delle caratteristiche di riservatezza proprie della procedura di mediazione, “ai fini dell’omologazione ex art. 12 d.lgs. n. 28/2010 è necessario mettere il giudice in grado di effettuare le valutazioni di sua competenza con la sintetica indicazione del titolo sottostante alle pretese creditorie, mentre, nel caso di specie, l’indicazione dell’oggetto della controversia come “liquidazione del debito” è puramente astratta e non consente le predette valutazioni”.
[1] Corte d’Appello di Lecce – Sezione staccata di Taranto, sentenza 19 gennaio 2015
[2] Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 5 febbraio 2015, n. 2143
[3] Al contrario non è dovuta la rivalutazione monetaria, trattandosi di obbligazione di valuta e per questo soggetta al principio nominalistico.
File Allegati
Trib._Roma 04.03.2015.pdf
App._Lecce 19.01.2015.pdf
Cass._Lav. 2143.2015.pdf
Trib._Firenze VG.pdf