Investitura e nullità nel rapporto di fatto
Autore |
Studio Legale Abbatescianni |
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Lingua |
Italiano
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Data di pubblicazione |
09/06/2009
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SOMMARIO
1. Premessa - 2. La nullità e le sue eccezioni - 3. Il rapporto giuridico di fatto - 4. La logica dell’imputazione degli atti del funzionario di fatto nell’orientamento giurisprudenziale dominante: critica - 5. L’imputazione all’amministrazione degli atti posti in essere in base ad un titolo nullo come eccezione alla regola dell’inefficacia dello stesso - 6. Le ipotesi di vizio testuale dell’investitura: a) nel caso della nomina nulla - 6. b): nel caso dell’incarico nullo - 7. Le ipotesi contrattuali di investitura e la loro nullità - 8. Le mansioni superiori contra legem come ipotesi sopravvenuta di attività amministrativa di fatto - 9. La sorte degli atti adottati sulla base di un titolo di investitura nullo - 10. Osservazioni conclusive – 11. Nota bibliografica
1. Premessa
L’attuale fase storica appare caratterizzata da una evidente moltiplicazione dei centri di imputazione di atti ed attività all’amministrazione e degli strumenti con i quali essa si realizza. L’indagine su questi ultimi trova particolari profili d’interesse, ma anche di complicazione, nel caso dell’attività amministrativa di fatto posta in essere sulla base di un titulus radicalmente inefficace. La trattazione di tale argomento, a sua volta, pone interessanti e controverse questioni di interferenza con il tema della nullità, tanto in termini teorici quanto pratici. Ad alcune delle problematiche che tale interferenza solleva è dedicato questo studio. In particolare, si tratterà dei casi di esercizio di una attività amministrativa svolta sulla base di un titolo d’investitura nullo, delle caratteristiche che assume il rapporto giuridico sorto sulla base di quello e della qualificazione giuridica degli atti adottati sulla base di un atto di investitura nullo. Ipotesi in cui la tematica del funzionario di fatto deve confrontarsi anche con la proliferazione degli strumenti di investitura e con le difformi conseguenze che al giudizio di nullità degli stessi possono conseguire. Per ragionare di tali ipotesi occorre muovere dal tema della nullità e del rapporto di fatto, indagati prevalentemente dalla dottrina privatistica, per poi applicare alle aree nozionali di nostro interesse i concetti così delineati. Ciò per una pluralità di fini: l’individuazione dei casi in cui possa parlarsi di funzionario di fatto, in presenza di un atto di investitura nullo; l’utilizzabilità dell’istituto in questione nei casi in cui l’atto nullo che ha un effetto di investitura ad un munus publicum non è, come possibile, un provvedimento; la configurabilità di un’attività amministrativa di fatto sulla base di una invalidità (rectius antigiuridicità) radicale sopravvenuta del titolo di investitura. Autorevole dottrina individua nel funzionario di fatto una ‘regola’ che elide la rilevanza della legittimità o addirittura l’esistenza dell’atto di investitura ad un ufficio, nei limiti in cui quest’ultimo non venga impugnato insieme all’atto adottato dal titolare apparente dell’ufficio medesimo. A nostro parere tale definizione, che pure ‘fotografa’ il nucleo del problema e la sua principale curiosità teorica (id est la rilevanza dell’impugnazione giurisdizionale nella qualificazione giuridica in termini di validità o invalidità dell’atto di nomina), presenta un duplice ordine di limiti. Il primo è che non delinea il fondamento teorico della regola enunciata; il secondo è che non permette di sottolineare le specificità dell’attività amministrativa esercitata sulla base di un titolo nullo. Specificità che, come si cercherà di argomentare, possono atteggiarsi, sotto il profilo dell’imputazione, ad eccezioni alla regola dell’inefficacia dell’atto nullo ed al regime ordinario del rapporto cd. di fatto che, all’atto così qualificato, dovrebbe conseguire. Pertanto, dopo aver premesso una breve trattazione del tema della nullità e del rapporto di fatto, si cercheranno di delineare le ragioni dell’eccezione sopra ipotizzata per poi valutare l’applicabilità dell’opzione proposta ad una pluralità di ipotesi sicuramente riconducibili alla tematica dell’esercizio di fatto dell’attività amministrativa.
2. La nullità e le sue eccezioni
L’individuazione del fil rouge che accomuna le fattispecie oggetto di analisi nell’eccezione alla regola della improduttività degli effetti di un atto nullo impone di ragionare preliminarmente, come detto, dei caratteri fondanti tale sanzione e di qualificare il rapporto giuridico che dal medesimo trae origine. La qualificazione concettuale della nullità è notoriamente ardua ed una sua completa trattazione non pare conferente, interessando la tematica oggetto di studio solo per alcuni profili. L’atto nullo presenta una difformità tale rispetto al suo paradigma di validità da essere sanzionato dall’ordinamento con l’inidoneità alla produzione degli effetti, laddove siano ancora da produrre, ovvero, con la privazione dei medesimi, nell’evenienza in cui l’ordinamento stesso sia già stato innovato a mezzo dell’atto poi censurato. In termini positivi il paradigma della nullità è dettato da nota disposizione del codice civile da cui viene derivata la regola dell’inidoneità agli effetti dell’atto che presenti tali caratteri, in ottemperanza al noto brocardo. La questione della ammissibilità di eccezioni, di qualsivoglia tipo, alla regola appena ricordata, è tema che da tempo impegna la dottrina, senza giungere a soluzioni univoche, dipendendo esso dall’inquadramento teorico della nullità. Secondo una prima opzione, infatti, che potremmo dire dell’inqualificazione, l’atto nullo è un quid facti, inidoneo, come tale, a svolgere quella funzione mediatrice tra paradigma astratto ed effetto giuridico che è propria della fattispecie concreta conforme al suo modello. Pertanto, ciò che è nullo dovrebbe dirsi irrilevante sotto il profilo giuridico, inqualificabile, poiché, con efficace espressione, si osserva che esse nullum est non esse secundum jus. La dottrina che così intende la nullità, evidentemente, è portata a negare in radice l’ammissibilità di eccezioni all’inefficacia assoluta dell’atto nullo. Ammette, però, ipotesi di derivazione causale di effetti da quello, considerandolo come mero elemento costitutivo di una fattispecie più complessa. In tal caso l’effetto (eccezionale) viene fatto derivare da quest’ultima. Secondo altra opzione, maggiormente condivisibile, la qualificazione dell’atto nullo esiste comunque, ma è negativa. L’atto nullo è una fattispecie perché sussumibile comunque in uno schema astratto che, però, è diverso da quello corrispondente alla fattispecie valida. L’atto così sanzionato ha, dunque, la sua rilevanza giuridica e la nullità può atteggiarsi a “sanzione che presuppone la giuridicità dell’atto e a questo toglie la (sola) idoneità a produrre effetti finali”. In questa ipotesi lo stato di nullità dell’atto non è completamente inibitorio degli effetti. La regola tollera, cioè, delle eccezioni che debbono, però, trovare giustificazione in una norma positiva o essere dedotte da un principio generale dell’ordinamento. In realtà, l’adesione all’una o all’altra teoria, ai nostri fini, non sembra fondamentale, giacché laddove si rinvengano effetti giuridici causalmente riconducibili ad un atto nullo, spiegare tale singolarità come eccezione al principio dell’inefficacia o come effetto (eccezionale) di una fattispecie complessa di cui l’atto nullo costituisce solo un aspetto, non è così dirimente: il dato dell’effetto giuridico legato in termini di sollen all’atto nullo rimane tale. La questione sta nella giustificazione dell’eccezione. Sotto tale profilo non è dato rinvenire rationes generalizzabili, giacché le due ipotesi positive che solitamente si richiamano (art. 113 c.c. e art. 2126 c.c.), esprimono valori e logiche del tutto differenti, sicché l’analisi delle singole deviazioni dalla regola dell’inefficacia non si presta all’elaborazione di una linea interpretativa unitaria.
3. Il rapporto giuridico di fatto
Ugualmente problematica è la qualificazione del rapporto giuridico che sorge da un atto nullo. Concetto, anche questo, largamente indagato e, nel tempo, ampliato dalla dottrina civilistica, fino a ricomprendervi una rilevante pluralità di ipotesi accomunate dalla non agevole riconducibilità al genus delle obbligazioni ex contractu senza potersi qualificare, per ciò solo, ex delictu. Storicamente si parla, in tali casi, di rapporto giuridico di fatto. Si utilizza, quindi, una sintesi verbale ossimorica, atta ad indicare l’esistenza di un rapporto che è sorto nonostante l’inidoneità del titolo a porlo in essere. Tale inidoneità non conduce, però, alla non regolamentazione del rapporto così instaurato, ma funge da presupposto per l’applicazione al medesimo di una frazione della disciplina che si avrebbe se lo stesso fosse de jure, cioè instaurato sulla base di un titolo valido ed efficace. Ciò spiega la singolarità dell’espressione, attesa la differenza, ictu oculi esistente tra rapporto cd. di fatto, ma sempre giuridico, e rapporto giuridicamente irrilevante atteso che solo dal primo possono derivare conseguenze giuridiche. Anche questa osservazione, tuttavia, ci riconduce alla questione dell’eccezione alla regola dell’inefficacia dell’atto nullo, giacché il sorgere di un rapporto giuridico e, quindi, di quell’assetto di interessi è comunque la conseguenza in termini di sollen di determinati presupposti che, nel nostro caso, dovremmo dire inadatti perché nulli. Il problema di fondo è sempre il medesimo. L’analisi della letteratura e della giurisprudenza, per lo più privatistiche, che si sono occupate dei rapporti giuridici di fatto, ovvero degli effetti riconducibili, direttamente o meno, ad atti nulli, mostra chiaramente come i tentativi di sistemazione dogmatica del problema altro non sono che ipotesi di spiegazione dell’eccezione sopra ricordata, fondate su una pluralità di principi variamente rinvenuti nell’ordinamento. Basti pensare alle principali ipotesi di rapporto di fatto indagate dalla dottrina civilistica per trovare conferma di quanto detto. L’amministratore di fatto, cioè colui che esercita il munus di gestore dell’impresa senza titolo per farlo, ovvero sulla base di un titolo nullo, imputa le attività poste in essere sulla base di tale inidonea fonte di legittimazione, all’impresa, nei limiti e secondo le forme della cd. negotiorum gestio, alla stregua dei cui principi regolatori viene assimilato all’amministratore di diritto . Nel caso della prestazione resa in esecuzione di contratto di lavoro nullo, invece, abbiamo ugualmente un rapporto di fatto, ma, in tal caso, è il favor per il lavoratore il principio che viene utilizzato per giustificare l’eccezione alla regola dell’inefficacia. Solo questo rende, infatti, l’esecuzione accepta dal datore di lavoro del tutto sovrapponibile a quella derivante da un contratto valido ed efficace. Come si vede, anche nella speculazione civilistica, il rapporto di fatto sorto da un titolo nullo ha uno sviluppo tutt’altro che unitario. Ammette, sì, degli effetti giuridici, ma secondo logiche puntuali, inutilizzabili ai nostri fini, per quanto, un dato di fondo da tener ben presente ricorre in tutte le ipotesi esemplificate: le eccezioni sono ammesse, ma solo, come detto, nei limiti in cui vi sia un principio generale dell’ordinamento atto a giustificarle. Applicando tali concetti di teoria generale al nostro specifico campo d’indagine osserviamo, però, che i già poco saldi ‘paletti di confine’ del problema lo diventano ancor meno. La ‘regola’ del funzionario di fatto fa sì che il ‘risultato’ prodotto da un atto di investitura dichiarato nullo non sia irrilevante, né abbia qualificazione negativa. La presenza di una accertata ragione di nullità della nomina non solo non impedisce di considerare il soggetto incardinato nell’ufficio come munus, ma non interrompe neppure il rapporto organico. Viene a crearsi, cioè, un peculiare rapporto di fatto tra amministrazione e titolare dell’ufficio difficilmente inquadrabile secondo le logiche tradizionali. Ciò, in quanto, l’applicazione di tale ‘regola’, quale che sia l’opzione prescelta, in presenza di un atto di investitura nullo, conduce ad affermare che non è venuto meno né l’ ‘effetto di investitura’, né quello di imputazione degli atti così compiuti all’amministrazione di riferimento: l’attività posta in essere, pur se di fatto, è amministrativa. Vengono, invece, meno le conseguenze sanzionatorie ordinarie della nullità. Che poi ciò si spieghi come conseguenza di una fattispecie complessa formata dall’investitura nulla e da un quid alterum oppure come eccezione al principio dell’assoluta inefficacia degli atti nulli non sembra fondamentale. Abbiamo, comunque, un effetto giuridico eccezionale senza che sia spiegata la ratio posta a fondamento di tale ‘anomalia’.
4. La logica dell’imputazione degli atti del funzionario di fatto nell’orientamento giurisprudenziale dominante: critica
In via preliminare occorre richiamare brevemente l’attenzione sulle concrete applicazioni della teoria del funzionario di fatto attualmente accolta dalla giurisprudenza e da parte non trascurabile della dottrina. Ciò al fine di evidenziarne i limiti ricostruttivi, valutare l’applicabilità dell’opzione proposta ed impostare il prosieguo del lavoro. Tale orientamento delinea il problema secondo una ricostruzione del tutto difforme da quella qui proposta giacché la giurisprudenza ritiene che il funzionario di fatto sia uno strumento atto a fondare la legittimità di determinate categorie di atti compiuti senza legittimazione, sulla base di un’esigenza di garanzia dei diritti dei terzi che vengono a contatto col funzionario medesimo. Esso, dunque, si sostanzia nella tutela della buona fede del privato e, in questa prospettiva, gli effetti presi in considerazione dalla teoria in esame sono solo quelli favorevoli al privato in pendenza di procedimenti giurisdizionali avverso gli stessi. Si ritiene, però, che l’applicazione di tale versione della teoria presenti due ordini di limiti, l’uno derivante proprio dal fatto che l’interessato insorga negando il potere di chi li ha emessi” e “l’altro proprio della tutela della buona fede del terzo, nel senso che […] detta teoria può essere invocata a vantaggio del terzo, ma non a danno del terzo”. Pertanto, se ne deduce, che non si possa riconoscere validità agli atti contro i quali l’interessato abbia proposto ricorso giurisdizionale lamentando il vizio del potere di chi li ha emessi, né a quelli sfavorevoli al ricorrente medesimo. Come si vede, simile accezione, ritenendo di tutelare il ragionevole affidamento del terzo in buona fede, bipartisce il regime giuridico dell’efficacia degli atti in ragione della loro qualificazione in termini di favorevolezza o meno, non affrontando neppure il problema della loro imputabilità all’amministrazione. In tal senso, l’applicazione della teoria del funzionario di fatto agisce come meccanismo di recupero non della sola validità degli atti, ma anche della loro efficacia se e quando gli effetti dell’atto censurato siano favorevoli al privato. In quest’ultimo caso è evidente come l’eccezione alla regola dell’inefficacia degli atti nulli raggiunga il suo culmine, giacché l’atto viene imputato comunque all’amministrazione e la sua difformità, anche radicale, dal paradigma di validità che dovrebbe rispettare, viene del tutto obliterata. Ciò senza che vengano mai enunciate le ragioni di tale singolarità. Quest’opzione ricostruttiva, come direbbe autorevole dottrina, lascia l’amaro in bocca e non può essere accolta per una pluralità di ragioni, sia sostanziali che processuali. Sotto il profilo sostanziale, non pare corretto qualificare come valido un atto che è, comunque, difforme dal suo parametro di legittimità, né pare un criterio convincente per l’attribuzione dell’efficacia, sulla base dell’istituto di cui si discute, distinguere i provvedimenti amministrativi in aventi, o meno, effetti favorevoli per il destinatario considerando, poi, efficaci solo i primi perché soltanto questi ammettono un affidamento degno di tutela. Tale classificazione è stata, infatti, da tempo, messa in discussione da acuto interprete, che ne ha sottolineato l’arbitrarietà e la soggettività. Fondare su un così labile confine due modalità diametralmente opposte di determinazione dell’efficacia degli atti impugnati, infatti, da un lato, pare poco produttivo e, dall’altro, consente all’autorità giudiziaria uno spazio di valutazione del provvedimento finale non pienamente consonante, a nostro modo di vedere, con il principio di legalità. Sotto il secondo profilo, non sembrano, altresì, da condividere le ulteriori specificazioni di tale orientamento, secondo il quale l’applicazione della teoria del funzionario di fatto trova un limite insormontabile, oltre che nella valenza ‘non ampliativa’ della sfera giuridica del destinatario dell’atto impugnato, anche nel fatto che il ricorrente non impugni il provvedimento negando il potere di chi l’ha emesso. Infatti, scontata la considerazione per la quale appare improbabile l’impugnazione di un atto favorevole (che, peraltro, può essere sfavorevole per un terzo poiché “l’attribuzione ad un privato di un beneficio particolare comporta l’incisione nella libertà degli altri”), è da ritenere che l’unica censura che legittima il vaglio dell’atto alla luce della teoria in esame è proprio quella attinente la legittimazione, cioè la legittimità del concreto esercizio di quel potere. Diversamente, non si vede in quali ipotesi la questione del funzionario di fatto che è tale in virtù di una nomina nulla, dovrebbe avere applicazione. Come si vede, dunque, l’accezione giurisprudenziale del problema lascia troppi interrogativi senza risposta, ha scarso rigore dogmatico e giustifica, pertanto, la ricerca di ulteriori soluzioni.
5. L’imputazione all’amministrazione degli atti posti in essere in base ad un titolo nullo come eccezione alla regola dell’inefficacia dello stesso.
A nostro modo di vedere il problema è mal posto, giacché sovrappone due ambiti concettuali che debbono rimanere distinti. Premesso che porre la questione del funzionario di fatto presume l’avvenuto compimento di atti ed attività di cui occorre ragionare in termini di imputabilità ed efficacia, si deve sottolineare che, in presenza di tale patologia, il problema dell’imputazione degli atti adottati dal soggetto che agisce sulla base di un atto di investitura nullo è preliminare e logicamente scisso da quello della sorte dei medesimi. E’, infatti, evidente come la soluzione in termini negativi della prima questione (id est l’imputazione) faccia del tutto scemare l’interesse alla qualificazione della seconda (id est il regime degli atti). In ordine alla prima questione sollevata, pare corretto affermare che l’accertamento della nullità del titolo che fonda il rapporto di servizio non sia sufficiente, a nostro modo di vedere, ad interrompere il rapporto organico e ad imputare alla persona fisica agente quanto compiuto come munus. In altre parole, l’atto di nomina dichiarato nullo e gli atti che ne presuppongono l’esistenza e l’efficacia, sono pur sempre atti dell’amministrazione, anche dopo la qualificazione della nomina stessa come radicalmente nulla. Vero è che l’atto dichiarato nullo dovrebbe dirsi tamquam non esset e che la nomina così viziata dovrebbe importare la nullità e l’inefficacia degli atti che in quella trovano l’unico presupposto fondante, ma, così dicendo, si oblitererebbe il fatto che l’amministrazione, operando, ingenera nei terzi con i quali entra in contatto un affidamento circa la provenienza degli atti che appaiono ad essa riconducibili. Atti che non dovrebbero esserle imputati proprio in applicazione delle conseguenze che l’ordinamento connette, di regola, alla nullità. Tale affidamento, a nostro modo di vedere, è giustificato e va tutelato applicando il generale principio dell’apparentia juris che fonda, quindi, la ragione giustificatrice dell’eccezione alla regola dell’inefficacia dell’atto nullo di cui discutiamo. Il richiamo a tali concetti va però meglio articolato. Il principio dell’apparenza del diritto, la cui portata si estende all’intero ordinamento, si caratterizza per il fatto di consentire l’efficacia giuridica ad atti che in sua assenza non l’avrebbero. La ratio dello stesso risiede nell’esigenza di salvaguardare l’affidamento incolpevole (o il ragionevole affidamento, secondo la figura dell’agente modello) del terzo in buona fede che abbia confidato in una determinata situazione esistente solo in apparenza. Tale situazione, nel caso che ci occupa, consiste non nella validità degli atti che incidono nella sfera giuridica di chi si è affidato, nel qual caso discuteremmo, piuttosto, di presunzione di legittimità, ma nella provenienza del provvedimento dall’ente in cui il funzionario appariva incardinato come organo. Va, altresì, specificato che l’esistenza di tale principio, la cui lesione può fungere da elemento costitutivo di una fattispecie di risarcimento del danno, non ha nulla a che vedere, come ritiene invece l’opzione censurata, con la tipologia dell’effetto che il provvedimento adottato sulla base di un’investitura nulla è idoneo a generare. Non si vede, infatti, perché il destinatario di un provvedimento d’esproprio debba confidare nella provenienza dall’amministrazione dell’atto che lo lede in termini minori di chi riceve una sovvenzione e, soprattutto, non si vedono le ragioni dell’utilizzo del principio in parola per tutelare solo il soggetto che, dall’imputazione all’amministrazione dell’atto che incide sulla sua sfera soggettiva, trae un vantaggio. La tutela dell’affidamento in questione, a nostro avviso, non crea una validità ed una efficacia ‘succedanee’ degli atti adottati dal funzionario di fatto, ma incide sulla regola per la quale gli atti nulli non producono effetti, fondandone un’eccezione. Ancora più specificamente, consente di affermare che, in relazione alle ipotesi di atti adottati sulla base di provvedimento di investitura nullo, la regola per la quale quod nullum est nullum producit effectum trova una deroga nell’istituto del funzionario di fatto per quanto riguarda l’imputazione, il che non impedisce la qualificazione dell’atto così adottato come invalido. La tutela dell’affidamento del terzo sposta, quindi, l’ottica del problema dalla fattispecie viziata, che resta tale, alla situazione di fatto determinatasi a seguito dell’accertamento di tale vizio. Essa funge, cioè, da fatto storico determinante per l’insorgenza, e la tutela, dell’affidamento nell’apparente produzione di una determinata dinamica effettuale. Tale ricostruzione tuttavia, se fornisce una chiave di lettura del problema dell’imputazione, non risolve, come detto, le questioni connesse alla sorte degli atti ed, inoltre, deve essere vagliata alla luce di una duplice problematica: la multiformità delle fattispecie idonee a produrre un effetto di investitura ad un pubblico ufficio e la eventuale sopravvenienza delle ipotesi di nullità (melius antigiuridicità). Sotto il primo profilo, non può non sottolinearsi, a conferma della difficoltà di una reductio ad unitatem del problema, come l’espressione ‘investitura ad un pubblico ufficio’ sia, anch’essa, una sintesi verbale comprendente atti la cui natura giuridica è la più disparata. Ciò se, da un lato, non pone questioni definitorie, nel senso che ci troviamo comunque di fronte ad un soggetto il cui titolo di nomina è nullo, dall’altro, ne può porre in termini teorici. Appare, quindi, opportuno domandarsi, in primo luogo, se quanto osservato può trovare pratica applicabilità nel caso in cui il titolo di investitura è un provvedimento nullo, per poi verificare se l’idea possa estendersi alle ipotesi di esercizio di una data funzione sulla base di un contratto nullo o sulla base di un diversamente qualificato strumento di investitura.
6. Le ipotesi di vizio testuale dell’investitura:
a) nel caso della nomina nulla
Occorre ora applicare quanto osservato ad alcune ipotesi testuali di nullità del provvedimento che possono porre la questione dell’attività amministrativa di fatto. Che la figura del funzionario di fatto difetti di una previsione normativa è noto, come anche è noto che esistono ipotesi specifiche, nel nostro ordinamento, di nullità testuali che si prestano ad intersezioni con la tematica in esame. Le esigenze di tutela dell’art. 97 della Costituzione hanno indotto il legislatore a prevedere specifiche ipotesi di nullità dei provvedimenti amministrativi, spesso in termini che non hanno “riguardo alla qualità intrinseca dei vizi [sicché], […] le varie nozioni [...] finiscono per riassumere una serie di concetti che non sono altro che le conclusioni dell’interpretazione del diritto positivo vigente”. Alcune di queste incidono sul titolo in virtù del quale un soggetto è preposto ad un pubblico ufficio e consentono di trattare la tematica della nullità alla luce del nostro particolare angolo visuale. L’ipotesi più importante è quella dettata dal cd. testo unico degli impiegati civili dello stato, laddove dispone che “…salve le eccezioni previste dal presente decreto, l’assunzione agli impieghi senza il concorso prescritto per le singole carriere è nulla di diritto e non produce alcun effetto a carico dell’amministrazione ferma restando la responsabilità dell’impiegato che vi ha provveduto”. Tale dictum, applicando i principi generali, dovrebbe portare ad escludere che il soggetto che svolga attività funzionale senza un’investitura concorsuale sia un funzionario. La totale inefficacia dell’investitura dovrebbe infatti, per derivazione, interrompere il rapporto organico ex tunc, rendendo tamquam non esset per la pubblica amministrazione l’attività da quello posta in essere, specialmente perché viene, comunque, fatta salva la diretta responsabilità del funzionario e il legislatore sembra accettare eccezioni solo nei casi ivi previsti. Viene delineato, tra l’amministrazione e il titolare dell’ufficio, un rapporto giuridico sicuramente ‘non di diritto’, sanzionato con l’inefficacia, che però, ad un’interpretazione letterale, nulla consente di inferire in ordine all’imputazione degli atti eventualmente adottati da chi agisce in virtù di un’assunzione nulla. Tuttavia, non può negarsi come, in tale evenienza, trovi pacifica applicazione la regola del funzionario di fatto, che va a fondare un’eccezione, addirittura, ad una previsione legislativa specifica. Eccezione, però, perfettamente spiegabile sulla base dei principi sopra enunciati, in virtù dei quali non viene meno la riferibilità all’amministrazione dell’atto adottato sulla base di una nomina non preceduta da un concorso, né la relativa valenza costitutiva di un rapporto di servizio. Tale ultimo aspetto va debitamente sottolineato, poiché cinquant’anni di arresti giurisprudenziali sulla disposizione appena riportata hanno indotto autorevole dottrina ad interrogarsi sui rapporto intercorrenti tra il problema dell’attività amministrativa di fatto e la valenza dell’atto di nomina nullo. L’autore del più completo studio sull’attività amministrativa di fatto, nell’impostare in termini definitori la questione, differenziava quest’ultima da quella de jure solo in ragione dell’esistenza o meno di una specifica legittimazione conferita dall’ordinamento in capo a chi tale attività ha posto in essere. Se tale impostazione è corretta, come crediamo, è evidente che una negazione della valenza costitutiva dell’atto di nomina faccia scemare l’interesse verso la categoria concettuale ‘funzione di fatto’. In tal senso, si apprezza maggiormente quell’evoluzione giurisprudenziale che, proprio in ordine alla tematica dell’attività amministrativa svolta sulla base di un titolo d’investitura nullo, trova un vero e proprio spartiacque in alcune sentenze relativamente recenti dell’adunanza plenaria del consiglio di stato. Prima di tali pronunce, infatti, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario aveva delineato una sorta di requiem giuridico per il provvedimento di nomina e, di rimando, per le questioni attinenti alle possibili forme di rilevanza della sua nullità. Ciò sulla base della considerazione, seguita anche da dottrina lavoristica più recente, per la quale un rapporto di lavoro pubblico de jure poteva trovare il proprio presupposto costitutivo non solo nel relativo provvedimento di nomina, ma anche, laddove quello difettasse o fosse nullo, nel materiale inserimento del prestatore nell’organizzazione dell’ente; inserimento, a sua volta, dimostrabile a mezzo di indici di riconoscibilità dotati degli stessi pregi e degli stessi difetti di quelli elaborati in materia di eccesso di potere. Il ridimensionamento dell’atto di nomina (del quale, sotto tale profilo, era irrilevante la natura) fino alla perdita della sua valenza costitutiva, rendeva inutile discutere, in relazione a tali ipotesi, di un’attività amministrativa di fatto distinta da una di diritto, venendone meno l’unico criterio differenziante. Tale opzione ricostruttiva, tuttavia, oltre a non essere spendibile per ogni forma di esercizio di fatto dell’attività amministrativa, cozzava irrimediabilmente con il principio di legalità, rendendo sostanzialmente un flatus vocis le previsioni testuali di nullità ed inefficacia che pure nel periodo storico in cui questa linea interpretativa veniva elaborata, non difettavano. E’ da segnalare, in proposito, il singolare contrasto tra l’orientamento appena esposto e l’approccio restrittivo seguito, invece, in presenza di un altro ambito nozionale nel quale si pone la questione della funzione di fatto: le mansioni superiori esercitate in assenza di specifico incarico. In tal caso la censura dell’inefficacia assoluta non ammetteva deroga alcuna, ancorandosi, la giurisprudenza, agli stessi principi che, invece, qualificando come pur sempre de jure il rapporto d’impiego sorto in virtù di nomina nulla, negava del tutto. E’ evidente che, vigendo tale interpretazione, non serviva affatto porsi il problema interpretativo del fondamento dell’imputabilità all’amministrazione di atti adottati sulla base di un provvedimento nullo. Di tali violazioni del principio di legalità si fa giustizia solo nel 1992 quando, una serie di pronunce dell’adunanza plenaria del consiglio di stato, pur se precedute da sporadiche decisioni danno il via ad un’interpretazione più consona alla teoria generale del diritto delle previsioni di nullità testuale della nomina, riabilitandone, indipendentemente dalla natura dell’atto, la relativa valenza costitutiva, e riproponendo, indirettamente, la tematica qui in analisi. Queste pronunce, hanno chiaramente affermato per la prima volta in termini netti che “nel caso in cui un soggetto assume che un rapporto di pubblico impiego è sorto sulla base di atti o comportamenti diversi da quelli presi in considerazione dalla legge, non può il giudice amministrativo accertare un rapporto che non è sorto”. Si dà, dunque, per pacifica l’applicazione del regime della nullità al provvedimento istitutivo del rapporto di lavoro pubblico adottato in violazione di norme imperative che, esplicitamente e puntualmente, tale sanzione comminano. Come si vede, dunque, il recupero della valenza costitutiva dell’atto di nomina, da un lato, riconduce l’interpretazione al rispetto della littera legis, ma dall’altro, non può non riproporre la questione dell’attività posta in essere sulla base di una nomina nulla e dell’imputazione di quella. Si ripresenta, allora, il tema dell’eccezione alla regola dell’inefficacia dell’atto nullo, che si ritiene di poter giustificare alla luce dei principi sopra richiamati. L’attività posta in essere dal funzionario, che qualifichiamo ‘di fatto’ una volta accertata la nullità della relativa nomina, perché in contrasto con la disposizione sopra citata, non diviene tamquam non esset per l’amministrazione stessa, ma viene ad essa imputata sia perché la sanzione della nullità non elide del tutto la rilevanza giuridica dell’atto che tale qualificazione patisce, sia per la generalità del principio dell’apparentia juris, che nei termini sopra ipotizzati, funge da strumento di recupero dell’imputazione in un’ottica di tutela dell’affidamento incolpevole del terzo.
6. b): nel caso dell’incarico nullo
Ulteriore ipotesi di nullità testuale, che giustifica l’attenzione sotto il profilo prescelto, è quella prevista dalle “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” laddove viene previsto che “le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Salve le più gravi sanzioni, il conferimento dei predetti incarichi, senza la previa autorizzazione, [...] è nullo di diritto”. Tale previsione se, da un lato, mostra come il problema dell’attività esercitata sulla base di un titolo di investitura nullo sia ben più ampio di quello della nullità del provvedimento di nomina, dall’altro, pone comunque la questione della riferibilità all’amministrazione, prima, e del relativo regime, poi, degli atti adottati sulla base di un incarico nullo. In tal caso un provvedimento di investitura esiste, è valido ed efficace, ma non può fungere da titolo legittimante l’esercizio di quella funzione che abbisogna, viceversa, anche di uno specifico atto di incarico. Quest’ultimo però, difettando dell’apposita autorizzazione, va qualificato come nullo, il che ripropone, ancora una volta, il tema dell’imputazione degli atti adottati sulla base di un titolo legittimante nullo. Anche qui non può che parlarsi, a nostro modo di vedere, di eccezione al regime della nullità, mancando, ovvero essendo radicalmente inefficace, il titolo di esercizio della funzione, e richiamare quanto sopra osservato in termini generali. La imputabilità all’amministrazione degli atti adottati sulla base di un incarico nullo si presta ad essere giustificata attraverso l’esistenza del titolo che, comunque mantiene una rilevanza giuridica e, soprattutto, attraverso il principio dell’apparentia juris, anche in tal caso utilizzabile come strumento di tutela dell’affidamento del terzo in buona fede.
7. Le ipotesi contrattuali di investitura e la loro nullità
La dogmatica pubblicistica ha, da sempre, ragionato sull’esercizio di fatto di pubbliche funzioni avendo un punto fermo: la natura provvedimentale dell’atto di costituzione del rapporto di servizio, vagliando poi, secondo varie declinazioni, le conseguenze connesse all’assenza ovvero all’invalidità del primo. Tale approccio mostra, però, dei limiti laddove si consideri un aspetto con il quale uno studio sull’attività amministrativa di fatto non può non confrontarsi. La più parte dei funzionari pubblici svolge, oggi, il suo munus sulla base di un ‘contratto di nomina’, il che costringe a rapportare la tematica dell’atto di investitura nullo e del relativo rapporto di fatto a categorie concettuali diverse. La cd. privatizzazione del pubblico impiego e, più in generale, l’ampliamento delle ipotesi in cui la genesi del rapporto di servizio tra il titolare di un ufficio e l’amministrazione di riferimento ha titolo non provvedimentale, impongono l’analisi del problema oggetto di studio sotto il versante civilistico. Solo inquadrando tale problematica si potrà, poi, discutere del regime dell’atto, anche provvedimentale, posto in essere da un soggetto il cui contratto di investitura sia nullo. Tale ipotesi ha chiara legittimazione normativa laddove si consideri che l’attuale legislazione ammette esplicitamente la possibilità di conferire incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione, esclusivamente sulla base di contratti privatistici. La stessa corte di cassazione, con recente pronuncia, ha, del resto, affermato la natura privatistica anche del cd. provvedimento d’incarico dirigenziale, il che ne giustifica la trattazione sotto il nostro profilo d’indagine. Peraltro, l’ingresso del contratto fra gli ‘strumenti di investitura’ genera anche un’ulteriore complicazione. L’effetto di preposizione ad un ufficio potrebbe, infatti, essere il frutto di un’operazione negoziale ovvero di negozi tra loro collegati da una finalità unica. E’ il caso del dirigente che, acquisita tale qualifica sulla base di un contratto, risulti legittimato all’esercizio di una determinata competenza a mezzo di un ulteriore negozio, che funge da atto di conferimento dell’incarico. In tale evenienza lo stato di inidoneità assoluta all’effetto potrebbe attenere ad uno solo o ad entrambi gli atti. Come si vede, a fronte dello sviluppo in senso privatistico del problema dell’investitura nulla ad un pubblico ufficio, l’opzione sopra proposta trova un consistente banco di prova, atteso che le disposizioni normative non forniscono alcun aiuto. Occorre analizzare partitamente le questioni. Nel caso in cui vi sia un soggetto che svolge attività amministrativa sulla base di un contratto nullo, non v’è dubbio che i principi dell’affidamento del terzo in buona fede e dell’apparenza (meglio spendibili a fronte di un atto privatistico), laddove ne sussistano i presupposti di applicazione, faranno sì che l’attività posta in essere da quello sia imputata all’amministrazione. Né, del resto, potrebbe essere diversamente, giacché l’utilizzo dello strumento negoziale non può far perdere di vista il contesto nel quale viene utilizzato: la preposizione ad un ufficio, il che impone di trattare le relative invalidità del titolo alla luce dei principi che governano l’attività amministrativa di fatto. In altre parole, non sembra che la mutazione genetica del titolo di investitura impedisca di configurare la persistenza dell’imputazione all’amministrazione degli atti adottati sulla base, questa volta, di un contratto nullo, come ulteriore eccezione alla regola generale dell’inefficacia più volte richiamata, giustificabile attraverso gli stessi principi già menzionati. Più problematico è il caso in cui l’investitura sia il frutto di un atto complesso. La nullità, in tali casi, potrebbe riguardare l’atto che definisce l’esatto dimensionamento delle attività che l’investito può legittimamente compiere (id est l’incarico), ma non il contratto di nomina, in virtù del quale, come detto, il soggetto ha conseguito solo la qualifica dirigenziale. In queste ipotesi, l’atto nullo che pone il problema della riferibilità all’amministrazione di quanto compiuto presupponendolo valido ed efficace, incide sulle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa secondo moduli privatistici e come tale va valutato, dovendosi applicare “le categorie proprie del diritto civile”. Nel caso di specie pare possibile ravvisare, in termini descrittivi, un’ipotesi di collegamento negoziale, vale a dire una pluralità di negozi tra loro connessi da una identità funzionale: l’investitura. La dottrina civilistica, nel delineare le conseguenze della nullità di un negozio su un altro che al primo è collegato, ritiene pacificamente applicabile il principio espresso dal brocardo simul stabunt simul cadent giacché i due, pur avendo cause diverse, sono preordinati ad uno scopo unitario che ne regge le sorti. Applicando tale principio alle nostre necessità, tuttavia, occorre bipartire le ipotesi e parlare, più propriamente, di un collegamento negoziale unilaterale. Ciò, in quanto, mentre appare corretto qualificare come nullo e radicalmente inefficace il negozio di incarico laddove sia nullo quello di investitura, non pare corretto estendere a quest’ultimo la sanzione massima dell’ordinamento laddove essa dipenda da ragioni proprie del solo incarico. In tale ultimo caso, infatti, l’imputazione all’amministrazione degli atti adottati sulla base di un incarico nullo, ma di un’investitura valida, non abbisogna di appigli interpretativi per essere affermata, trovando fondamento proprio nella validità dell’investitura. In tale evenienza, in realtà, appare opinabile anche discutere di attività amministrativa di fatto, atteso che il soggetto regolarmente investito, ma agente sulla base di un incarico nullo, può dirsi semplicemente incompetente. Nell’ipotesi della nullità dell’investitura, invece, il collegamento negoziale unilaterale impone la sanzione della nullità anche all’incarico, riproponendo il problema dell’inefficacia assoluta e dell’imputazione. A nostro modo di vedere, nonostante non constino precedenti giurisprudenziali specifici, pare corretto seguire la strada già delineata, trattandosi, in sostanza, di un’attività amministrativa posta in essere sulla base di un titolo radicalmente inefficace. Anche in tal caso, dunque, l’imputazione potrà essere spiegata seguendo l’impostazione proposta.
8. Le mansioni superiori contra legem come ipotesi sopravvenuta di attività amministrativa di fatto
Il problema della riferibilità all’amministrazione degli atti adottati sulla base di un titolo radicalmente inefficace è sempre stato affrontato in termini di vizio genetico del medesimo, presumendo cioè che un’attività amministrativa ‘nasca’ di diritto o di fatto e rimanga comunque tale. Tale impostazione sembra riduttiva e ci conduce ad affrontare la questione sotto il nostro particolare angolo visuale. Non si intende qui riferirsi a forme di invalidità dell’atto di investitura genetiche ma successivamente rilevate, quanto, piuttosto, ad ipotesi di vero e proprio esercizio sopravvenuto di funzioni di fatto. Una compiuta trattazione ex professo delle ipotesi in cui può porsi il tema della nullità sopravvenuta del titolo d’investitura, al di là dell’ammissibilità teorica del relativo concetto, notoriamente dibattuto, esula dai fini del presente scritto, ma ciò non toglie che i casi in cui la dottrina ha posto il problema delle sopravvenienze che incidono, per alcuni, sulla validità di un atto e, per i più, sull’efficacia dello stesso, presentino margini di intersezione con la tematica oggetto di studio. In tale genus possono sicuramente rientrare le ipotesi di esercizio di fatto delle mansioni superiori, generalmente indagate dalla giurisprudenza, più che dalla dottrina, sotto il mero profilo economico, al fine di valutare quali diritti patrimoniali fossero riconoscibili a soggetti esercitanti attività amministrativa difforme rispetto a quella di loro competenza sulla base della pianta organica. L’indagine, tuttavia, non si è mai preoccupata della collocazione sistematica, teorica, di tale forma di esercizio dell’attività amministrativa. La giurisprudenza, in particolare, ha sempre dato per scontato che un soggetto già legato da validi ed efficaci rapporti d’ufficio e di servizio con l’amministrazione di riferimento, laddove abbia compiuto atti estranei o ultronei rispetto a quelli cui l’atto di investitura lo abilita ponga, comunque, in essere atti amministrativi, a loro volta, validi ed efficaci, sorgendo questiones, si ripete, per il solo profilo economico del rapporto. Tuttavia, a ben vedere, tale conclusione appare necessitata in quanto, da un lato, le occasioni di sindacato giurisdizionale sull’esercizio di mansioni superiori de facto sono generalmente attivate da un ricorso del dipendente pubblico poco interessato ai principi che governano il regime di imputazione dell’atto da egli adottato nell’esercizio, appunto, di mansioni la cui attribuzione è nulla, sicché difficilmente potrebbe porsi la relativa questione teorica. Dall’altro, non constano precedenti specifici di impugnazioni di atti amministrativi fondate sulla inefficacia radicale della mansione, sempre de facto, esercitata proprio adottando il provvedimento lesivo. Questo, probabilmente, spiega lo scarso approfondimento teorico del tema, anche perché l’ipotesi dell’adozione di provvedimenti nell’esercizio di mansioni superiori de facto è, oltretutto, evenienza realmente residuale. Ciò non elide, però, il problema dogmatico, lasciato insoluto dalla giurisprudenza, atteso che il soggetto che esercita mansioni superiori senza titolo per farlo o con un atto di assegnazione nullo, pone in essere, pacificamente, attività amministrativa senza averne la legittimazione, il che ci riconduce alla problematica del funzionario di fatto. Se si accettano queste premesse, è del tutto evidente come muti la prospettiva d’analisi del fenomeno e come lo stesso si mostri in tutta la sua complessità. Osservando l’evoluzione delle pronunce in materia, ci si avvede come sia indirizzo pacifico del consiglio di stato quello per il quale le mansioni svolte da un dipendente pubblico, se di livello superiore a quelle dovute in base al provvedimento di nomina o di inquadramento, siano del tutto irrilevanti, non solo ai fini della progressione di carriera, ma anche a fini unicamente economici. Ciò a meno che vi sia un’espressa previsione normativa che disponga diversamente e sussistano determinati presupposti, quali lo specifico, preventivo, provvedimento di incarico; la disponibilità del relativo posto in organico; l’attinenza dell’incarico stesso a mansioni della qualifica immediatamente superiore. In tal senso è, ormai, orientato anche il più recente legislatore, che ha previsto specifici requisiti di rilevanza dell’esercizio di fatto di mansioni superiori, riproponendo la medesima rigidità e delineando una specifica, testuale, ipotesi di nullità. Come si vede, dall’interpretazione giurisprudenziale, si trae l’unica regola per la quale l’attività esercitata in ambiti esterni a quelli costituenti l’oggetto dell’atto di nomina legittimano un’eccezione alla regola della nullità solo in termini economici, essendo possibile rintracciare solo questioni di applicabilità o meno, ai rapporti di fatto, di specifiche disposizioni codicistiche (2126 c.c.), dandosi per scontata la validità e l’efficacia degli atti così adottati. A nostro modo di vedere il soggetto che esercita mansioni di fatto superiori pone in essere un’attività amministrativa di fatto, è un funzionario di fatto, perché l’atto di investitura in virtù del quale è munus dell’amministrazione non è, di per sé, strumento idoneo ad imputare quelle attività all’amministrazione. In particolare è un ‘funzionario di fatto sopravvenuto’ giacché il problema dell’imputazione degli atti compiuti si pone in termini temporali successivi alla sua investitura originaria. Se si accetta questa ricostruzione, appare possibile spiegare il fenomeno dell’imputazione sulla stessa base logica del titolo di investitura originariamente nullo, evidenziando come, in tali particolari frangenti, il principio dell’apparentia juris e dell’affidamento del terzo, intesi come strumento di recupero dell’imputazione all’amministrazione degli atti così posti in essere, siano idonei a giustificare la detta imputazione, che tanto il legislatore quanto la giurisprudenza danno inspiegabilmente per scontata. Ciò, come detto, non vale a creare una riserva di validità degli atti così adottati, giacché se, da un lato, il richiamo alla teoria del funzionario di fatto può risolvere la questione della imputabilità, nulla dice, come già osservato, circa la relativa sorte che va comunque interpretata alla luce dell’istituto dell’invalidità derivata.
9. La sorte degli atti adottati sulla base di un titolo di investitura nullo
Il problema dell’attività amministrativa di fatto,come visto, si presta ad essere inquadrato secondo un duplice livello d’indagine: quello relativo all’imputazione degli atti adottati dal ‘funzionario apparente’ e quello, successivo, relativo alla sorte dei medesimi. Delineata un’ipotesi di soluzione del problema dell’imputazione ed evidenziato che, secondo l’opzione proposta, gli atti adottati sulla base di un titolo di investitura nullo non possono derivare da alcun principio la loro validità, si può passare ad affrontare la tematica della loro qualificazione giuridica. In tal senso è del tutto condivisibile la critica che autorevole dottrina muove all’utilizzo del principio dell’apparentia juris come strumento di salvaguardia della validità (e, su tale premessa, dell’efficacia) degli atti adottati dal funzionario di fatto. Tale evenienza potrebbe, infatti, essere predicata in presenza di una norma generale espressa che non sembra potersi desumere da una, spesso ricordata, disposizione del codice civile (113 c.c.), espressa in termini tutt’altro che generali. A nostro avviso, infatti, il principio dell’affidamento incolpevole del terzo nell’apparenza può avere un ruolo nell’imputazione degli atti di cui si discute, ma non può fungere da parametro di validità succedanea dei medesimi. Un’accezione conforme a costituzione del principio di legalità impone di escludere dal novero degli atti validi quelli difformi dal parametro in base al quale tale giudizio viene formulato e non si scorgono le ragioni per le quali tale difformità dovrebbe essere qualificata, ex abrupto, come irrilevante, specialmente nel caso in cui la stessa raggiunga il grado massimo: la nullità. Appaiono, dunque, eccessive e non condivisibili le posizioni dottrinarie che configurano gli atti del funzionario di fatto, tale sulla base di un titolo d’investitura nullo, come comunque validi ed efficaci. Da ciò la conseguenza necessitata per la quale gli atti di cui discutiamo sono da considerarsi viziati sotto il profilo soggettivo e, come tali, comunque invalidi. Il problema, a questo punto, diventa quello della definizione del tipo di invalidità, dovendoci chiedere se, alla nullità dell’investitura nell’ufficio, consegua, o meno, la nullità anche degli atti adottati. L’opzione teorica che sembra maggiormente convincente per spiegarne la sorte è quella dell’invalidità derivata, che in questa sede sarebbe, però, fuor d’opera approfondire. Come noto, l’invalidità derivata è qualificazione giuridica da attribuirsi a quelle fattispecie che pur conformi al paradigma di riferimento risulti invalida a causa di vizi che incidono sull’atto che ne costituisce l’antecedente necessario. Ai nostri limitati fini riveste, però, interesse una sola species del genus invalidità derivata: la nullità derivata. Il bivio non è di poco momento e si inserisce in una delle tematiche più complesse della patologia degli atti amministrativi, che qui interessa sotto limitati profili. La dottrina che si è occupata del problema oscilla tra la nullità derivata e l’annullabilità del provvedimento adottato sulla base del titolo nullo e rispecchia le rispettive posizioni teoriche sul tema dell’attività amministrativa di fatto. La prima impostazione, infatti, vede nel funzionario di fatto una eccezione alla regola della nullità per derivazione, e quindi una applicazione di principi autonomi. La seconda considera l’attività amministrativa di fatto alla luce dei principi generali, negando l’autonomia dei principi che governano l’istituto. Premesso che, in entrambi i casi, l’attività posta in essere dal funzionario di fatto viene riferita all’amministrazione, seppur seguendo diversi percorsi, la seconda opzione, affrontando la tematica dell’invalidità derivata alla luce dell’attività amministrativa di fatto, appare preferibile, perché consente di trattare la tematica del vizio derivato esterno in termini più corretti. Sul punto, come accorta dottrina ha rilevato, è arduo e forse inutile delineare una chiave di lettura unitaria, anche in ragione del fatto che il legame di presupposizione che lega atto presupponente e presupposto (nullo) si presta alle interpretazioni più disparate, imponendo all’interprete di rifugiarsi nel case method. Adottando, quindi, la distinzione tra invalidità derivata viziante e caducante avremo un esempio della seconda laddove il nesso di presupposizione che lega l’atto di investitura nullo ed il provvedimento adottato sia qualificabile in termini di stretta dipendenza logico-formale, mentre applicheremo il primo nel caso in cui questa dipendenza non vi sia. Può, quindi, dirsi che il provvedimento adottato in difetto, ab initio, dell’atto di nomina, o nonostante un titolo di legittimazione nullo o inefficace è, dunque, da riferirsi all’amministrazione per la teoria del funzionario di fatto qui accolta, ed efficace, o meno, a seconda non della sua pretesa ‘favorevolezza’, ma dell’intensità del nesso funzionale di derivazione che lo lega alla nomina nulla. Questo vale però nel caso in cui l’atto di nomina, indipendentemente dalla sua struttura giuridica, sia già stato dichiarato nullo al momento dell’adozione del provvedimento che la presuppone. Qualora, invece, ciò non sia già avvenuto, si pongono problemi autonomi, che riguardano gli aspetti processuali del problema, attenendo al profilo della legittimazione ad impugnare l’atto adottato congiuntamente alla nomina radicalmente invalida. La questione della tipologia del vizio che inficia l’atto adottato sul presupposto di una nomina nulla, tuttavia, non muta la sua sostanza neppure se vista sotto tale diverso angolo visuale. Infatti, la giurisprudenza ritiene che non sussista un interesse qualificato e diretto ad impugnare l’atto di investitura emanato da un organo amministrativo a competenza generale in occasione dell’impugnazione degli atti emanati dall’organo stesso, salvo il caso in cui l’investitura abbia avuto luogo per il compimento di atti specifici (il che si verifica nell’ipotesi di uffici temporanei). Si utilizza, cioè, la diversa intensità del nesso funzionale sopra evidenziato per fondare l’esistenza o meno dell’interesse a ricorrere. In tal caso dunque, l’atto adottato dal soggetto il cui atto di investitura che risulta nullo perché la relativa dichiarazione sopravviene all’adozione del provvedimento oppure perché sopravviene lo stato di antigiuridicità della nomina, dovrà comunque imputarsi all’amministrazione. Dovrà, però dirsi, a sua volta, nullo, se sussiste quel legame che ne giustifica la caducazione, mentre verrà qualificato come solo annullabile nelle altre ipotesi, che scolorano in casi di illegittimità solo viziante.
10. Osservazioni conclusive
Dalle precedenti osservazioni possono trarsi alcune indicazioni di fondo sulla tematica specifica dell’investitura nulla e del rapporto di fatto. Gli esiti raggiunti con il presente studio sembrano confermare la correttezza ed attualità dell’insegnamento che, in caso di attività posta in essere da organi amministrativi agenti in base ad un titolo invalido, impone di scindere la problematica dell’imputazione da quella della sorte dei relativi atti. Tale bipartizione ha consentito di criticare l’utilizzo del concetto di ‘attività amministrativa di fatto’ come mezzo per elidere tutti i problemi che l’invalidità della nomina porta con sé e di proporre un peculiare utilizzo del principio dell’apparentia juris come grimaldello concettuale nella ricerca del fondamento dell’imputazione degli atti adottati sulla base di un titolo del tutto inidoneo all’effetto. Del resto, la privatizzazione del cd. impiego pubblico e degli strumenti di investitura ad un pubblico ufficio impongono di ripensare il problema delle regole di imputazione alla luce di un sistema di concetti costruito più per disciplinare un rapporto che per governare quella puntualizzazione del potere che è l’atto amministrativo. Inoltre, solo ragionando in termini autonomi dell’imputazione ed individuando i principi che la fondano, a nostro modo di vedere, si può affrontare il problema della sorte degli atti. Vero è, infatti, che il perno del problema dell’attività amministrativa di fatto “è semplicemente un problema di validità degli atti relativi, che va risolto alla stregua dei principi generali sulla validità degli atti amministrativi”, ma presuppone risolta la questione dell’imputazione. E’ questa, a nostro modo di vedere, l’utilità dell’indagine sui principi giustificatori dell’imputazione stessa, atteso che, per usare un’efficace espressione, ‘la regola’ dell’invalidità derivata, che pure si ritiene il miglior tentativo di sistemazione dogmatica del problema degli atti adottati dal funzionario di fatto, presuppone risolto in termini positivi il problema della qualifica
SOMMARIO
1. Premessa - 2. La nullità e le sue eccezioni - 3. Il rapporto giuridico di fatto - 4. La logica dell’imputazione degli atti del funzionario di fatto nell’orientamento giurisprudenziale dominante: critica - 5. L’imputazione all’amministrazione degli atti posti in essere in base ad un titolo nullo come eccezione alla regola dell’inefficacia dello stesso - 6. Le ipotesi di vizio testuale dell’investitura: a) nel caso della nomina nulla - 6. b): nel caso dell’incarico nullo - 7. Le ipotesi contrattuali di investitura e la loro nullità - 8. Le mansioni superiori contra legem come ipotesi sopravvenuta di attività amministrativa di fatto - 9. La sorte degli atti adottati sulla base di un titolo di investitura nullo - 10. Osservazioni conclusive – 11. Nota bibliografica
1. Premessa
L’attuale fase storica appare caratterizzata da una evidente moltiplicazione dei centri di imputazione di atti ed attività all’amministrazione e degli strumenti con i quali essa si realizza. L’indagine su questi ultimi trova particolari profili d’interesse, ma anche di complicazione, nel caso dell’attività amministrativa di fatto posta in essere sulla base di un titulus radicalmente inefficace. La trattazione di tale argomento, a sua volta, pone interessanti e controverse questioni di interferenza con il tema della nullità, tanto in termini teorici quanto pratici. Ad alcune delle problematiche che tale interferenza solleva è dedicato questo studio. In particolare, si tratterà dei casi di esercizio di una attività amministrativa svolta sulla base di un titolo d’investitura nullo, delle caratteristiche che assume il rapporto giuridico sorto sulla base di quello e della qualificazione giuridica degli atti adottati sulla base di un atto di investitura nullo. Ipotesi in cui la tematica del funzionario di fatto deve confrontarsi anche con la proliferazione degli strumenti di investitura e con le difformi conseguenze che al giudizio di nullità degli stessi possono conseguire. Per ragionare di tali ipotesi occorre muovere dal tema della nullità e del rapporto di fatto, indagati prevalentemente dalla dottrina privatistica, per poi applicare alle aree nozionali di nostro interesse i concetti così delineati. Ciò per una pluralità di fini: l’individuazione dei casi in cui possa parlarsi di funzionario di fatto, in presenza di un atto di investitura nullo; l’utilizzabilità dell’istituto in questione nei casi in cui l’atto nullo che ha un effetto di investitura ad un munus publicum non è, come possibile, un provvedimento; la configurabilità di un’attività amministrativa di fatto sulla base di una invalidità (rectius antigiuridicità) radicale sopravvenuta del titolo di investitura. Autorevole dottrina individua nel funzionario di fatto una ‘regola’ che elide la rilevanza della legittimità o addirittura l’esistenza dell’atto di investitura ad un ufficio, nei limiti in cui quest’ultimo non venga impugnato insieme all’atto adottato dal titolare apparente dell’ufficio medesimo. A nostro parere tale definizione, che pure ‘fotografa’ il nucleo del problema e la sua principale curiosità teorica (id est la rilevanza dell’impugnazione giurisdizionale nella qualificazione giuridica in termini di validità o invalidità dell’atto di nomina), presenta un duplice ordine di limiti. Il primo è che non delinea il fondamento teorico della regola enunciata; il secondo è che non permette di sottolineare le specificità dell’attività amministrativa esercitata sulla base di un titolo nullo. Specificità che, come si cercherà di argomentare, possono atteggiarsi, sotto il profilo dell’imputazione, ad eccezioni alla regola dell’inefficacia dell’atto nullo ed al regime ordinario del rapporto cd. di fatto che, all’atto così qualificato, dovrebbe conseguire. Pertanto, dopo aver premesso una breve trattazione del tema della nullità e del rapporto di fatto, si cercheranno di delineare le ragioni dell’eccezione sopra ipotizzata per poi valutare l’applicabilità dell’opzione proposta ad una pluralità di ipotesi sicuramente riconducibili alla tematica dell’esercizio di fatto dell’attività amministrativa.
2. La nullità e le sue eccezioni
L’individuazione del fil rouge che accomuna le fattispecie oggetto di analisi nell’eccezione alla regola della improduttività degli effetti di un atto nullo impone di ragionare preliminarmente, come detto, dei caratteri fondanti tale sanzione e di qualificare il rapporto giuridico che dal medesimo trae origine. La qualificazione concettuale della nullità è notoriamente ardua ed una sua completa trattazione non pare conferente, interessando la tematica oggetto di studio solo per alcuni profili. L’atto nullo presenta una difformità tale rispetto al suo paradigma di validità da essere sanzionato dall’ordinamento con l’inidoneità alla produzione degli effetti, laddove siano ancora da produrre, ovvero, con la privazione dei medesimi, nell’evenienza in cui l’ordinamento stesso sia già stato innovato a mezzo dell’atto poi censurato. In termini positivi il paradigma della nullità è dettato da nota disposizione del codice civile da cui viene derivata la regola dell’inidoneità agli effetti dell’atto che presenti tali caratteri, in ottemperanza al noto brocardo. La questione della ammissibilità di eccezioni, di qualsivoglia tipo, alla regola appena ricordata, è tema che da tempo impegna la dottrina, senza giungere a soluzioni univoche, dipendendo esso dall’inquadramento teorico della nullità. Secondo una prima opzione, infatti, che potremmo dire dell’inqualificazione, l’atto nullo è un quid facti, inidoneo, come tale, a svolgere quella funzione mediatrice tra paradigma astratto ed effetto giuridico che è propria della fattispecie concreta conforme al suo modello. Pertanto, ciò che è nullo dovrebbe dirsi irrilevante sotto il profilo giuridico, inqualificabile, poiché, con efficace espressione, si osserva che esse nullum est non esse secundum jus. La dottrina che così intende la nullità, evidentemente, è portata a negare in radice l’ammissibilità di eccezioni all’inefficacia assoluta dell’atto nullo. Ammette, però, ipotesi di derivazione causale di effetti da quello, considerandolo come mero elemento costitutivo di una fattispecie più complessa. In tal caso l’effetto (eccezionale) viene fatto derivare da quest’ultima. Secondo altra opzione, maggiormente condivisibile, la qualificazione dell’atto nullo esiste comunque, ma è negativa. L’atto nullo è una fattispecie perché sussumibile comunque in uno schema astratto che, però, è diverso da quello corrispondente alla fattispecie valida. L’atto così sanzionato ha, dunque, la sua rilevanza giuridica e la nullità può atteggiarsi a “sanzione che presuppone la giuridicità dell’atto e a questo toglie la (sola) idoneità a produrre effetti finali”. In questa ipotesi lo stato di nullità dell’atto non è completamente inibitorio degli effetti. La regola tollera, cioè, delle eccezioni che debbono, però, trovare giustificazione in una norma positiva o essere dedotte da un principio generale dell’ordinamento. In realtà, l’adesione all’una o all’altra teoria, ai nostri fini, non sembra fondamentale, giacché laddove si rinvengano effetti giuridici causalmente riconducibili ad un atto nullo, spiegare tale singolarità come eccezione al principio dell’inefficacia o come effetto (eccezionale) di una fattispecie complessa di cui l’atto nullo costituisce solo un aspetto, non è così dirimente: il dato dell’effetto giuridico legato in termini di sollen all’atto nullo rimane tale. La questione sta nella giustificazione dell’eccezione. Sotto tale profilo non è dato rinvenire rationes generalizzabili, giacché le due ipotesi positive che solitamente si richiamano (art. 113 c.c. e art. 2126 c.c.), esprimono valori e logiche del tutto differenti, sicché l’analisi delle singole deviazioni dalla regola dell’inefficacia non si presta all’elaborazione di una linea interpretativa unitaria.
3. Il rapporto giuridico di fatto
Ugualmente problematica è la qualificazione del rapporto giuridico che sorge da un atto nullo. Concetto, anche questo, largamente indagato e, nel tempo, ampliato dalla dottrina civilistica, fino a ricomprendervi una rilevante pluralità di ipotesi accomunate dalla non agevole riconducibilità al genus delle obbligazioni ex contractu senza potersi qualificare, per ciò solo, ex delictu. Storicamente si parla, in tali casi, di rapporto giuridico di fatto. Si utilizza, quindi, una sintesi verbale ossimorica, atta ad indicare l’esistenza di un rapporto che è sorto nonostante l’inidoneità del titolo a porlo in essere. Tale inidoneità non conduce, però, alla non regolamentazione del rapporto così instaurato, ma funge da presupposto per l’applicazione al medesimo di una frazione della disciplina che si avrebbe se lo stesso fosse de jure, cioè instaurato sulla base di un titolo valido ed efficace. Ciò spiega la singolarità dell’espressione, attesa la differenza, ictu oculi esistente tra rapporto cd. di fatto, ma sempre giuridico, e rapporto giuridicamente irrilevante atteso che solo dal primo possono derivare conseguenze giuridiche. Anche questa osservazione, tuttavia, ci riconduce alla questione dell’eccezione alla regola dell’inefficacia dell’atto nullo, giacché il sorgere di un rapporto giuridico e, quindi, di quell’assetto di interessi è comunque la conseguenza in termini di sollen di determinati presupposti che, nel nostro caso, dovremmo dire inadatti perché nulli. Il problema di fondo è sempre il medesimo. L’analisi della letteratura e della giurisprudenza, per lo più privatistiche, che si sono occupate dei rapporti giuridici di fatto, ovvero degli effetti riconducibili, direttamente o meno, ad atti nulli, mostra chiaramente come i tentativi di sistemazione dogmatica del problema altro non sono che ipotesi di spiegazione dell’eccezione sopra ricordata, fondate su una pluralità di principi variamente rinvenuti nell’ordinamento. Basti pensare alle principali ipotesi di rapporto di fatto indagate dalla dottrina civilistica per trovare conferma di quanto detto. L’amministratore di fatto, cioè colui che esercita il munus di gestore dell’impresa senza titolo per farlo, ovvero sulla base di un titolo nullo, imputa le attività poste in essere sulla base di tale inidonea fonte di legittimazione, all’impresa, nei limiti e secondo le forme della cd. negotiorum gestio, alla stregua dei cui principi regolatori viene assimilato all’amministratore di diritto . Nel caso della prestazione resa in esecuzione di contratto di lavoro nullo, invece, abbiamo ugualmente un rapporto di fatto, ma, in tal caso, è il favor per il lavoratore il principio che viene utilizzato per giustificare l’eccezione alla regola dell’inefficacia. Solo questo rende, infatti, l’esecuzione accepta dal datore di lavoro del tutto sovrapponibile a quella derivante da un contratto valido ed efficace. Come si vede, anche nella speculazione civilistica, il rapporto di fatto sorto da un titolo nullo ha uno sviluppo tutt’altro che unitario. Ammette, sì, degli effetti giuridici, ma secondo logiche puntuali, inutilizzabili ai nostri fini, per quanto, un dato di fondo da tener ben presente ricorre in tutte le ipotesi esemplificate: le eccezioni sono ammesse, ma solo, come detto, nei limiti in cui vi sia un principio generale dell’ordinamento atto a giustificarle. Applicando tali concetti di teoria generale al nostro specifico campo d’indagine osserviamo, però, che i già poco saldi ‘paletti di confine’ del problema lo diventano ancor meno. La ‘regola’ del funzionario di fatto fa sì che il ‘risultato’ prodotto da un atto di investitura dichiarato nullo non sia irrilevante, né abbia qualificazione negativa. La presenza di una accertata ragione di nullità della nomina non solo non impedisce di considerare il soggetto incardinato nell’ufficio come munus, ma non interrompe neppure il rapporto organico. Viene a crearsi, cioè, un peculiare rapporto di fatto tra amministrazione e titolare dell’ufficio difficilmente inquadrabile secondo le logiche tradizionali. Ciò, in quanto, l’applicazione di tale ‘regola’, quale che sia l’opzione prescelta, in presenza di un atto di investitura nullo, conduce ad affermare che non è venuto meno né l’ ‘effetto di investitura’, né quello di imputazione degli atti così compiuti all’amministrazione di riferimento: l’attività posta in essere, pur se di fatto, è amministrativa. Vengono, invece, meno le conseguenze sanzionatorie ordinarie della nullità. Che poi ciò si spieghi come conseguenza di una fattispecie complessa formata dall’investitura nulla e da un quid alterum oppure come eccezione al principio dell’assoluta inefficacia degli atti nulli non sembra fondamentale. Abbiamo, comunque, un effetto giuridico eccezionale senza che sia spiegata la ratio posta a fondamento di tale ‘anomalia’.
4. La logica dell’imputazione degli atti del funzionario di fatto nell’orientamento giurisprudenziale dominante: critica
In via preliminare occorre richiamare brevemente l’attenzione sulle concrete applicazioni della teoria del funzionario di fatto attualmente accolta dalla giurisprudenza e da parte non trascurabile della dottrina. Ciò al fine di evidenziarne i limiti ricostruttivi, valutare l’applicabilità dell’opzione proposta ed impostare il prosieguo del lavoro. Tale orientamento delinea il problema secondo una ricostruzione del tutto difforme da quella qui proposta giacché la giurisprudenza ritiene che il funzionario di fatto sia uno strumento atto a fondare la legittimità di determinate categorie di atti compiuti senza legittimazione, sulla base di un’esigenza di garanzia dei diritti dei terzi che vengono a contatto col funzionario medesimo. Esso, dunque, si sostanzia nella tutela della buona fede del privato e, in questa prospettiva, gli effetti presi in considerazione dalla teoria in esame sono solo quelli favorevoli al privato in pendenza di procedimenti giurisdizionali avverso gli stessi. Si ritiene, però, che l’applicazione di tale versione della teoria presenti due ordini di limiti, l’uno derivante proprio dal fatto che l’interessato insorga negando il potere di chi li ha emessi” e “l’altro proprio della tutela della buona fede del terzo, nel senso che […] detta teoria può essere invocata a vantaggio del terzo, ma non a danno del terzo”. Pertanto, se ne deduce, che non si possa riconoscere validità agli atti contro i quali l’interessato abbia proposto ricorso giurisdizionale lamentando il vizio del potere di chi li ha emessi, né a quelli sfavorevoli al ricorrente medesimo. Come si vede, simile accezione, ritenendo di tutelare il ragionevole affidamento del terzo in buona fede, bipartisce il regime giuridico dell’efficacia degli atti in ragione della loro qualificazione in termini di favorevolezza o meno, non affrontando neppure il problema della loro imputabilità all’amministrazione. In tal senso, l’applicazione della teoria del funzionario di fatto agisce come meccanismo di recupero non della sola validità degli atti, ma anche della loro efficacia se e quando gli effetti dell’atto censurato siano favorevoli al privato. In quest’ultimo caso è evidente come l’eccezione alla regola dell’inefficacia degli atti nulli raggiunga il suo culmine, giacché l’atto viene imputato comunque all’amministrazione e la sua difformità, anche radicale, dal paradigma di validità che dovrebbe rispettare, viene del tutto obliterata. Ciò senza che vengano mai enunciate le ragioni di tale singolarità. Quest’opzione ricostruttiva, come direbbe autorevole dottrina, lascia l’amaro in bocca e non può essere accolta per una pluralità di ragioni, sia sostanziali che processuali. Sotto il profilo sostanziale, non pare corretto qualificare come valido un atto che è, comunque, difforme dal suo parametro di legittimità, né pare un criterio convincente per l’attribuzione dell’efficacia, sulla base dell’istituto di cui si discute, distinguere i provvedimenti amministrativi in aventi, o meno, effetti favorevoli per il destinatario considerando, poi, efficaci solo i primi perché soltanto questi ammettono un affidamento degno di tutela. Tale classificazione è stata, infatti, da tempo, messa in discussione da acuto interprete, che ne ha sottolineato l’arbitrarietà e la soggettività. Fondare su un così labile confine due modalità diametralmente opposte di determinazione dell’efficacia degli atti impugnati, infatti, da un lato, pare poco produttivo e, dall’altro, consente all’autorità giudiziaria uno spazio di valutazione del provvedimento finale non pienamente consonante, a nostro modo di vedere, con il principio di legalità. Sotto il secondo profilo, non sembrano, altresì, da condividere le ulteriori specificazioni di tale orientamento, secondo il quale l’applicazione della teoria del funzionario di fatto trova un limite insormontabile, oltre che nella valenza ‘non ampliativa’ della sfera giuridica del destinatario dell’atto impugnato, anche nel fatto che il ricorrente non impugni il provvedimento negando il potere di chi l’ha emesso. Infatti, scontata la considerazione per la quale appare improbabile l’impugnazione di un atto favorevole (che, peraltro, può essere sfavorevole per un terzo poiché “l’attribuzione ad un privato di un beneficio particolare comporta l’incisione nella libertà degli altri”), è da ritenere che l’unica censura che legittima il vaglio dell’atto alla luce della teoria in esame è proprio quella attinente la legittimazione, cioè la legittimità del concreto esercizio di quel potere. Diversamente, non si vede in quali ipotesi la questione del funzionario di fatto che è tale in virtù di una nomina nulla, dovrebbe avere applicazione. Come si vede, dunque, l’accezione giurisprudenziale del problema lascia troppi interrogativi senza risposta, ha scarso rigore dogmatico e giustifica, pertanto, la ricerca di ulteriori soluzioni.
5. L’imputazione all’amministrazione degli atti posti in essere in base ad un titolo nullo come eccezione alla regola dell’inefficacia dello stesso.
A nostro modo di vedere il problema è mal posto, giacché sovrappone due ambiti concettuali che debbono rimanere distinti. Premesso che porre la questione del funzionario di fatto presume l’avvenuto compimento di atti ed attività di cui occorre ragionare in termini di imputabilità ed efficacia, si deve sottolineare che, in presenza di tale patologia, il problema dell’imputazione degli atti adottati dal soggetto che agisce sulla base di un atto di investitura nullo è preliminare e logicamente scisso da quello della sorte dei medesimi. E’, infatti, evidente come la soluzione in termini negativi della prima questione (id est l’imputazione) faccia del tutto scemare l’interesse alla qualificazione della seconda (id est il regime degli atti). In ordine alla prima questione sollevata, pare corretto affermare che l’accertamento della nullità del titolo che fonda il rapporto di servizio non sia sufficiente, a nostro modo di vedere, ad interrompere il rapporto organico e ad imputare alla persona fisica agente quanto compiuto come munus. In altre parole, l’atto di nomina dichiarato nullo e gli atti che ne presuppongono l’esistenza e l’efficacia, sono pur sempre atti dell’amministrazione, anche dopo la qualificazione della nomina stessa come radicalmente nulla. Vero è che l’atto dichiarato nullo dovrebbe dirsi tamquam non esset e che la nomina così viziata dovrebbe importare la nullità e l’inefficacia degli atti che in quella trovano l’unico presupposto fondante, ma, così dicendo, si oblitererebbe il fatto che l’amministrazione, operando, ingenera nei terzi con i quali entra in contatto un affidamento circa la provenienza degli atti che appaiono ad essa riconducibili. Atti che non dovrebbero esserle imputati proprio in applicazione delle conseguenze che l’ordinamento connette, di regola, alla nullità. Tale affidamento, a nostro modo di vedere, è giustificato e va tutelato applicando il generale principio dell’apparentia juris che fonda, quindi, la ragione giustificatrice dell’eccezione alla regola dell’inefficacia dell’atto nullo di cui discutiamo. Il richiamo a tali concetti va però meglio articolato. Il principio dell’apparenza del diritto, la cui portata si estende all’intero ordinamento, si caratterizza per il fatto di consentire l’efficacia giuridica ad atti che in sua assenza non l’avrebbero. La ratio dello stesso risiede nell’esigenza di salvaguardare l’affidamento incolpevole (o il ragionevole affidamento, secondo la figura dell’agente modello) del terzo in buona fede che abbia confidato in una determinata situazione esistente solo in apparenza. Tale situazione, nel caso che ci occupa, consiste non nella validità degli atti che incidono nella sfera giuridica di chi si è affidato, nel qual caso discuteremmo, piuttosto, di presunzione di legittimità, ma nella provenienza del provvedimento dall’ente in cui il funzionario appariva incardinato come organo. Va, altresì, specificato che l’esistenza di tale principio, la cui lesione può fungere da elemento costitutivo di una fattispecie di risarcimento del danno, non ha nulla a che vedere, come ritiene invece l’opzione censurata, con la tipologia dell’effetto che il provvedimento adottato sulla base di un’investitura nulla è idoneo a generare. Non si vede, infatti, perché il destinatario di un provvedimento d’esproprio debba confidare nella provenienza dall’amministrazione dell’atto che lo lede in termini minori di chi riceve una sovvenzione e, soprattutto, non si vedono le ragioni dell’utilizzo del principio in parola per tutelare solo il soggetto che, dall’imputazione all’amministrazione dell’atto che incide sulla sua sfera soggettiva, trae un vantaggio. La tutela dell’affidamento in questione, a nostro avviso, non crea una validità ed una efficacia ‘succedanee’ degli atti adottati dal funzionario di fatto, ma incide sulla regola per la quale gli atti nulli non producono effetti, fondandone un’eccezione. Ancora più specificamente, consente di affermare che, in relazione alle ipotesi di atti adottati sulla base di provvedimento di investitura nullo, la regola per la quale quod nullum est nullum producit effectum trova una deroga nell’istituto del funzionario di fatto per quanto riguarda l’imputazione, il che non impedisce la qualificazione dell’atto così adottato come invalido. La tutela dell’affidamento del terzo sposta, quindi, l’ottica del problema dalla fattispecie viziata, che resta tale, alla situazione di fatto determinatasi a seguito dell’accertamento di tale vizio. Essa funge, cioè, da fatto storico determinante per l’insorgenza, e la tutela, dell’affidamento nell’apparente produzione di una determinata dinamica effettuale. Tale ricostruzione tuttavia, se fornisce una chiave di lettura del problema dell’imputazione, non risolve, come detto, le questioni connesse alla sorte degli atti ed, inoltre, deve essere vagliata alla luce di una duplice problematica: la multiformità delle fattispecie idonee a produrre un effetto di investitura ad un pubblico ufficio e la eventuale sopravvenienza delle ipotesi di nullità (melius antigiuridicità). Sotto il primo profilo, non può non sottolinearsi, a conferma della difficoltà di una reductio ad unitatem del problema, come l’espressione ‘investitura ad un pubblico ufficio’ sia, anch’essa, una sintesi verbale comprendente atti la cui natura giuridica è la più disparata. Ciò se, da un lato, non pone questioni definitorie, nel senso che ci troviamo comunque di fronte ad un soggetto il cui titolo di nomina è nullo, dall’altro, ne può porre in termini teorici. Appare, quindi, opportuno domandarsi, in primo luogo, se quanto osservato può trovare pratica applicabilità nel caso in cui il titolo di investitura è un provvedimento nullo, per poi verificare se l’idea possa estendersi alle ipotesi di esercizio di una data funzione sulla base di un contratto nullo o sulla base di un diversamente qualificato strumento di investitura.
6. Le ipotesi di vizio testuale dell’investitura:
a) nel caso della nomina nulla
Occorre ora applicare quanto osservato ad alcune ipotesi testuali di nullità del provvedimento che possono porre la questione dell’attività amministrativa di fatto. Che la figura del funzionario di fatto difetti di una previsione normativa è noto, come anche è noto che esistono ipotesi specifiche, nel nostro ordinamento, di nullità testuali che si prestano ad intersezioni con la tematica in esame. Le esigenze di tutela dell’art. 97 della Costituzione hanno indotto il legislatore a prevedere specifiche ipotesi di nullità dei provvedimenti amministrativi, spesso in termini che non hanno “riguardo alla qualità intrinseca dei vizi [sicché], […] le varie nozioni [...] finiscono per riassumere una serie di concetti che non sono altro che le conclusioni dell’interpretazione del diritto positivo vigente”. Alcune di queste incidono sul titolo in virtù del quale un soggetto è preposto ad un pubblico ufficio e consentono di trattare la tematica della nullità alla luce del nostro particolare angolo visuale. L’ipotesi più importante è quella dettata dal cd. testo unico degli impiegati civili dello stato, laddove dispone che “…salve le eccezioni previste dal presente decreto, l’assunzione agli impieghi senza il concorso prescritto per le singole carriere è nulla di diritto e non produce alcun effetto a carico dell’amministrazione ferma restando la responsabilità dell’impiegato che vi ha provveduto”. Tale dictum, applicando i principi generali, dovrebbe portare ad escludere che il soggetto che svolga attività funzionale senza un’investitura concorsuale sia un funzionario. La totale inefficacia dell’investitura dovrebbe infatti, per derivazione, interrompere il rapporto organico ex tunc, rendendo tamquam non esset per la pubblica amministrazione l’attività da quello posta in essere, specialmente perché viene, comunque, fatta salva la diretta responsabilità del funzionario e il legislatore sembra accettare eccezioni solo nei casi ivi previsti. Viene delineato, tra l’amministrazione e il titolare dell’ufficio, un rapporto giuridico sicuramente ‘non di diritto’, sanzionato con l’inefficacia, che però, ad un’interpretazione letterale, nulla consente di inferire in ordine all’imputazione degli atti eventualmente adottati da chi agisce in virtù di un’assunzione nulla. Tuttavia, non può negarsi come, in tale evenienza, trovi pacifica applicazione la regola del funzionario di fatto, che va a fondare un’eccezione, addirittura, ad una previsione legislativa specifica. Eccezione, però, perfettamente spiegabile sulla base dei principi sopra enunciati, in virtù dei quali non viene meno la riferibilità all’amministrazione dell’atto adottato sulla base di una nomina non preceduta da un concorso, né la relativa valenza costitutiva di un rapporto di servizio. Tale ultimo aspetto va debitamente sottolineato, poiché cinquant’anni di arresti giurisprudenziali sulla disposizione appena riportata hanno indotto autorevole dottrina ad interrogarsi sui rapporto intercorrenti tra il problema dell’attività amministrativa di fatto e la valenza dell’atto di nomina nullo. L’autore del più completo studio sull’attività amministrativa di fatto, nell’impostare in termini definitori la questione, differenziava quest’ultima da quella de jure solo in ragione dell’esistenza o meno di una specifica legittimazione conferita dall’ordinamento in capo a chi tale attività ha posto in essere. Se tale impostazione è corretta, come crediamo, è evidente che una negazione della valenza costitutiva dell’atto di nomina faccia scemare l’interesse verso la categoria concettuale ‘funzione di fatto’. In tal senso, si apprezza maggiormente quell’evoluzione giurisprudenziale che, proprio in ordine alla tematica dell’attività amministrativa svolta sulla base di un titolo d’investitura nullo, trova un vero e proprio spartiacque in alcune sentenze relativamente recenti dell’adunanza plenaria del consiglio di stato. Prima di tali pronunce, infatti, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario aveva delineato una sorta di requiem giuridico per il provvedimento di nomina e, di rimando, per le questioni attinenti alle possibili forme di rilevanza della sua nullità. Ciò sulla base della considerazione, seguita anche da dottrina lavoristica più recente, per la quale un rapporto di lavoro pubblico de jure poteva trovare il proprio presupposto costitutivo non solo nel relativo provvedimento di nomina, ma anche, laddove quello difettasse o fosse nullo, nel materiale inserimento del prestatore nell’organizzazione dell’ente; inserimento, a sua volta, dimostrabile a mezzo di indici di riconoscibilità dotati degli stessi pregi e degli stessi difetti di quelli elaborati in materia di eccesso di potere. Il ridimensionamento dell’atto di nomina (del quale, sotto tale profilo, era irrilevante la natura) fino alla perdita della sua valenza costitutiva, rendeva inutile discutere, in relazione a tali ipotesi, di un’attività amministrativa di fatto distinta da una di diritto, venendone meno l’unico criterio differenziante. Tale opzione ricostruttiva, tuttavia, oltre a non essere spendibile per ogni forma di esercizio di fatto dell’attività amministrativa, cozzava irrimediabilmente con il principio di legalità, rendendo sostanzialmente un flatus vocis le previsioni testuali di nullità ed inefficacia che pure nel periodo storico in cui questa linea interpretativa veniva elaborata, non difettavano. E’ da segnalare, in proposito, il singolare contrasto tra l’orientamento appena esposto e l’approccio restrittivo seguito, invece, in presenza di un altro ambito nozionale nel quale si pone la questione della funzione di fatto: le mansioni superiori esercitate in assenza di specifico incarico. In tal caso la censura dell’inefficacia assoluta non ammetteva deroga alcuna, ancorandosi, la giurisprudenza, agli stessi principi che, invece, qualificando come pur sempre de jure il rapporto d’impiego sorto in virtù di nomina nulla, negava del tutto. E’ evidente che, vigendo tale interpretazione, non serviva affatto porsi il problema interpretativo del fondamento dell’imputabilità all’amministrazione di atti adottati sulla base di un provvedimento nullo. Di tali violazioni del principio di legalità si fa giustizia solo nel 1992 quando, una serie di pronunce dell’adunanza plenaria del consiglio di stato, pur se precedute da sporadiche decisioni danno il via ad un’interpretazione più consona alla teoria generale del diritto delle previsioni di nullità testuale della nomina, riabilitandone, indipendentemente dalla natura dell’atto, la relativa valenza costitutiva, e riproponendo, indirettamente, la tematica qui in analisi. Queste pronunce, hanno chiaramente affermato per la prima volta in termini netti che “nel caso in cui un soggetto assume che un rapporto di pubblico impiego è sorto sulla base di atti o comportamenti diversi da quelli presi in considerazione dalla legge, non può il giudice amministrativo accertare un rapporto che non è sorto”. Si dà, dunque, per pacifica l’applicazione del regime della nullità al provvedimento istitutivo del rapporto di lavoro pubblico adottato in violazione di norme imperative che, esplicitamente e puntualmente, tale sanzione comminano. Come si vede, dunque, il recupero della valenza costitutiva dell’atto di nomina, da un lato, riconduce l’interpretazione al rispetto della littera legis, ma dall’altro, non può non riproporre la questione dell’attività posta in essere sulla base di una nomina nulla e dell’imputazione di quella. Si ripresenta, allora, il tema dell’eccezione alla regola dell’inefficacia dell’atto nullo, che si ritiene di poter giustificare alla luce dei principi sopra richiamati. L’attività posta in essere dal funzionario, che qualifichiamo ‘di fatto’ una volta accertata la nullità della relativa nomina, perché in contrasto con la disposizione sopra citata, non diviene tamquam non esset per l’amministrazione stessa, ma viene ad essa imputata sia perché la sanzione della nullità non elide del tutto la rilevanza giuridica dell’atto che tale qualificazione patisce, sia per la generalità del principio dell’apparentia juris, che nei termini sopra ipotizzati, funge da strumento di recupero dell’imputazione in un’ottica di tutela dell’affidamento incolpevole del terzo.
6. b): nel caso dell’incarico nullo
Ulteriore ipotesi di nullità testuale, che giustifica l’attenzione sotto il profilo prescelto, è quella prevista dalle “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” laddove viene previsto che “le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Salve le più gravi sanzioni, il conferimento dei predetti incarichi, senza la previa autorizzazione, [...] è nullo di diritto”. Tale previsione se, da un lato, mostra come il problema dell’attività esercitata sulla base di un titolo di investitura nullo sia ben più ampio di quello della nullità del provvedimento di nomina, dall’altro, pone comunque la questione della riferibilità all’amministrazione, prima, e del relativo regime, poi, degli atti adottati sulla base di un incarico nullo. In tal caso un provvedimento di investitura esiste, è valido ed efficace, ma non può fungere da titolo legittimante l’esercizio di quella funzione che abbisogna, viceversa, anche di uno specifico atto di incarico. Quest’ultimo però, difettando dell’apposita autorizzazione, va qualificato come nullo, il che ripropone, ancora una volta, il tema dell’imputazione degli atti adottati sulla base di un titolo legittimante nullo. Anche qui non può che parlarsi, a nostro modo di vedere, di eccezione al regime della nullità, mancando, ovvero essendo radicalmente inefficace, il titolo di esercizio della funzione, e richiamare quanto sopra osservato in termini generali. La imputabilità all’amministrazione degli atti adottati sulla base di un incarico nullo si presta ad essere giustificata attraverso l’esistenza del titolo che, comunque mantiene una rilevanza giuridica e, soprattutto, attraverso il principio dell’apparentia juris, anche in tal caso utilizzabile come strumento di tutela dell’affidamento del terzo in buona fede.
7. Le ipotesi contrattuali di investitura e la loro nullità
La dogmatica pubblicistica ha, da sempre, ragionato sull’esercizio di fatto di pubbliche funzioni avendo un punto fermo: la natura provvedimentale dell’atto di costituzione del rapporto di servizio, vagliando poi, secondo varie declinazioni, le conseguenze connesse all’assenza ovvero all’invalidità del primo. Tale approccio mostra, però, dei limiti laddove si consideri un aspetto con il quale uno studio sull’attività amministrativa di fatto non può non confrontarsi. La più parte dei funzionari pubblici svolge, oggi, il suo munus sulla base di un ‘contratto di nomina’, il che costringe a rapportare la tematica dell’atto di investitura nullo e del relativo rapporto di fatto a categorie concettuali diverse. La cd. privatizzazione del pubblico impiego e, più in generale, l’ampliamento delle ipotesi in cui la genesi del rapporto di servizio tra il titolare di un ufficio e l’amministrazione di riferimento ha titolo non provvedimentale, impongono l’analisi del problema oggetto di studio sotto il versante civilistico. Solo inquadrando tale problematica si potrà, poi, discutere del regime dell’atto, anche provvedimentale, posto in essere da un soggetto il cui contratto di investitura sia nullo. Tale ipotesi ha chiara legittimazione normativa laddove si consideri che l’attuale legislazione ammette esplicitamente la possibilità di conferire incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione, esclusivamente sulla base di contratti privatistici. La stessa corte di cassazione, con recente pronuncia, ha, del resto, affermato la natura privatistica anche del cd. provvedimento d’incarico dirigenziale, il che ne giustifica la trattazione sotto il nostro profilo d’indagine. Peraltro, l’ingresso del contratto fra gli ‘strumenti di investitura’ genera anche un’ulteriore complicazione. L’effetto di preposizione ad un ufficio potrebbe, infatti, essere il frutto di un’operazione negoziale ovvero di negozi tra loro collegati da una finalità unica. E’ il caso del dirigente che, acquisita tale qualifica sulla base di un contratto, risulti legittimato all’esercizio di una determinata competenza a mezzo di un ulteriore negozio, che funge da atto di conferimento dell’incarico. In tale evenienza lo stato di inidoneità assoluta all’effetto potrebbe attenere ad uno solo o ad entrambi gli atti. Come si vede, a fronte dello sviluppo in senso privatistico del problema dell’investitura nulla ad un pubblico ufficio, l’opzione sopra proposta trova un consistente banco di prova, atteso che le disposizioni normative non forniscono alcun aiuto. Occorre analizzare partitamente le questioni. Nel caso in cui vi sia un soggetto che svolge attività amministrativa sulla base di un contratto nullo, non v’è dubbio che i principi dell’affidamento del terzo in buona fede e dell’apparenza (meglio spendibili a fronte di un atto privatistico), laddove ne sussistano i presupposti di applicazione, faranno sì che l’attività posta in essere da quello sia imputata all’amministrazione. Né, del resto, potrebbe essere diversamente, giacché l’utilizzo dello strumento negoziale non può far perdere di vista il contesto nel quale viene utilizzato: la preposizione ad un ufficio, il che impone di trattare le relative invalidità del titolo alla luce dei principi che governano l’attività amministrativa di fatto. In altre parole, non sembra che la mutazione genetica del titolo di investitura impedisca di configurare la persistenza dell’imputazione all’amministrazione degli atti adottati sulla base, questa volta, di un contratto nullo, come ulteriore eccezione alla regola generale dell’inefficacia più volte richiamata, giustificabile attraverso gli stessi principi già menzionati. Più problematico è il caso in cui l’investitura sia il frutto di un atto complesso. La nullità, in tali casi, potrebbe riguardare l’atto che definisce l’esatto dimensionamento delle attività che l’investito può legittimamente compiere (id est l’incarico), ma non il contratto di nomina, in virtù del quale, come detto, il soggetto ha conseguito solo la qualifica dirigenziale. In queste ipotesi, l’atto nullo che pone il problema della riferibilità all’amministrazione di quanto compiuto presupponendolo valido ed efficace, incide sulle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa secondo moduli privatistici e come tale va valutato, dovendosi applicare “le categorie proprie del diritto civile”. Nel caso di specie pare possibile ravvisare, in termini descrittivi, un’ipotesi di collegamento negoziale, vale a dire una pluralità di negozi tra loro connessi da una identità funzionale: l’investitura. La dottrina civilistica, nel delineare le conseguenze della nullità di un negozio su un altro che al primo è collegato, ritiene pacificamente applicabile il principio espresso dal brocardo simul stabunt simul cadent giacché i due, pur avendo cause diverse, sono preordinati ad uno scopo unitario che ne regge le sorti. Applicando tale principio alle nostre necessità, tuttavia, occorre bipartire le ipotesi e parlare, più propriamente, di un collegamento negoziale unilaterale. Ciò, in quanto, mentre appare corretto qualificare come nullo e radicalmente inefficace il negozio di incarico laddove sia nullo quello di investitura, non pare corretto estendere a quest’ultimo la sanzione massima dell’ordinamento laddove essa dipenda da ragioni proprie del solo incarico. In tale ultimo caso, infatti, l’imputazione all’amministrazione degli atti adottati sulla base di un incarico nullo, ma di un’investitura valida, non abbisogna di appigli interpretativi per essere affermata, trovando fondamento proprio nella validità dell’investitura. In tale evenienza, in realtà, appare opinabile anche discutere di attività amministrativa di fatto, atteso che il soggetto regolarmente investito, ma agente sulla base di un incarico nullo, può dirsi semplicemente incompetente. Nell’ipotesi della nullità dell’investitura, invece, il collegamento negoziale unilaterale impone la sanzione della nullità anche all’incarico, riproponendo il problema dell’inefficacia assoluta e dell’imputazione. A nostro modo di vedere, nonostante non constino precedenti giurisprudenziali specifici, pare corretto seguire la strada già delineata, trattandosi, in sostanza, di un’attività amministrativa posta in essere sulla base di un titolo radicalmente inefficace. Anche in tal caso, dunque, l’imputazione potrà essere spiegata seguendo l’impostazione proposta.
8. Le mansioni superiori contra legem come ipotesi sopravvenuta di attività amministrativa di fatto
Il problema della riferibilità all’amministrazione degli atti adottati sulla base di un titolo radicalmente inefficace è sempre stato affrontato in termini di vizio genetico del medesimo, presumendo cioè che un’attività amministrativa ‘nasca’ di diritto o di fatto e rimanga comunque tale. Tale impostazione sembra riduttiva e ci conduce ad affrontare la questione sotto il nostro particolare angolo visuale. Non si intende qui riferirsi a forme di invalidità dell’atto di investitura genetiche ma successivamente rilevate, quanto, piuttosto, ad ipotesi di vero e proprio esercizio sopravvenuto di funzioni di fatto. Una compiuta trattazione ex professo delle ipotesi in cui può porsi il tema della nullità sopravvenuta del titolo d’investitura, al di là dell’ammissibilità teorica del relativo concetto, notoriamente dibattuto, esula dai fini del presente scritto, ma ciò non toglie che i casi in cui la dottrina ha posto il problema delle sopravvenienze che incidono, per alcuni, sulla validità di un atto e, per i più, sull’efficacia dello stesso, presentino margini di intersezione con la tematica oggetto di studio. In tale genus possono sicuramente rientrare le ipotesi di esercizio di fatto delle mansioni superiori, generalmente indagate dalla giurisprudenza, più che dalla dottrina, sotto il mero profilo economico, al fine di valutare quali diritti patrimoniali fossero riconoscibili a soggetti esercitanti attività amministrativa difforme rispetto a quella di loro competenza sulla base della pianta organica. L’indagine, tuttavia, non si è mai preoccupata della collocazione sistematica, teorica, di tale forma di esercizio dell’attività amministrativa. La giurisprudenza, in particolare, ha sempre dato per scontato che un soggetto già legato da validi ed efficaci rapporti d’ufficio e di servizio con l’amministrazione di riferimento, laddove abbia compiuto atti estranei o ultronei rispetto a quelli cui l’atto di investitura lo abilita ponga, comunque, in essere atti amministrativi, a loro volta, validi ed efficaci, sorgendo questiones, si ripete, per il solo profilo economico del rapporto. Tuttavia, a ben vedere, tale conclusione appare necessitata in quanto, da un lato, le occasioni di sindacato giurisdizionale sull’esercizio di mansioni superiori de facto sono generalmente attivate da un ricorso del dipendente pubblico poco interessato ai principi che governano il regime di imputazione dell’atto da egli adottato nell’esercizio, appunto, di mansioni la cui attribuzione è nulla, sicché difficilmente potrebbe porsi la relativa questione teorica. Dall’altro, non constano precedenti specifici di impugnazioni di atti amministrativi fondate sulla inefficacia radicale della mansione, sempre de facto, esercitata proprio adottando il provvedimento lesivo. Questo, probabilmente, spiega lo scarso approfondimento teorico del tema, anche perché l’ipotesi dell’adozione di provvedimenti nell’esercizio di mansioni superiori de facto è, oltretutto, evenienza realmente residuale. Ciò non elide, però, il problema dogmatico, lasciato insoluto dalla giurisprudenza, atteso che il soggetto che esercita mansioni superiori senza titolo per farlo o con un atto di assegnazione nullo, pone in essere, pacificamente, attività amministrativa senza averne la legittimazione, il che ci riconduce alla problematica del funzionario di fatto. Se si accettano queste premesse, è del tutto evidente come muti la prospettiva d’analisi del fenomeno e come lo stesso si mostri in tutta la sua complessità. Osservando l’evoluzione delle pronunce in materia, ci si avvede come sia indirizzo pacifico del consiglio di stato quello per il quale le mansioni svolte da un dipendente pubblico, se di livello superiore a quelle dovute in base al provvedimento di nomina o di inquadramento, siano del tutto irrilevanti, non solo ai fini della progressione di carriera, ma anche a fini unicamente economici. Ciò a meno che vi sia un’espressa previsione normativa che disponga diversamente e sussistano determinati presupposti, quali lo specifico, preventivo, provvedimento di incarico; la disponibilità del relativo posto in organico; l’attinenza dell’incarico stesso a mansioni della qualifica immediatamente superiore. In tal senso è, ormai, orientato anche il più recente legislatore, che ha previsto specifici requisiti di rilevanza dell’esercizio di fatto di mansioni superiori, riproponendo la medesima rigidità e delineando una specifica, testuale, ipotesi di nullità. Come si vede, dall’interpretazione giurisprudenziale, si trae l’unica regola per la quale l’attività esercitata in ambiti esterni a quelli costituenti l’oggetto dell’atto di nomina legittimano un’eccezione alla regola della nullità solo in termini economici, essendo possibile rintracciare solo questioni di applicabilità o meno, ai rapporti di fatto, di specifiche disposizioni codicistiche (2126 c.c.), dandosi per scontata la validità e l’efficacia degli atti così adottati. A nostro modo di vedere il soggetto che esercita mansioni di fatto superiori pone in essere un’attività amministrativa di fatto, è un funzionario di fatto, perché l’atto di investitura in virtù del quale è munus dell’amministrazione non è, di per sé, strumento idoneo ad imputare quelle attività all’amministrazione. In particolare è un ‘funzionario di fatto sopravvenuto’ giacché il problema dell’imputazione degli atti compiuti si pone in termini temporali successivi alla sua investitura originaria. Se si accetta questa ricostruzione, appare possibile spiegare il fenomeno dell’imputazione sulla stessa base logica del titolo di investitura originariamente nullo, evidenziando come, in tali particolari frangenti, il principio dell’apparentia juris e dell’affidamento del terzo, intesi come strumento di recupero dell’imputazione all’amministrazione degli atti così posti in essere, siano idonei a giustificare la detta imputazione, che tanto il legislatore quanto la giurisprudenza danno inspiegabilmente per scontata. Ciò, come detto, non vale a creare una riserva di validità degli atti così adottati, giacché se, da un lato, il richiamo alla teoria del funzionario di fatto può risolvere la questione della imputabilità, nulla dice, come già osservato, circa la relativa sorte che va comunque interpretata alla luce dell’istituto dell’invalidità derivata.
9. La sorte degli atti adottati sulla base di un titolo di investitura nullo
Il problema dell’attività amministrativa di fatto,come visto, si presta ad essere inquadrato secondo un duplice livello d’indagine: quello relativo all’imputazione degli atti adottati dal ‘funzionario apparente’ e quello, successivo, relativo alla sorte dei medesimi. Delineata un’ipotesi di soluzione del problema dell’imputazione ed evidenziato che, secondo l’opzione proposta, gli atti adottati sulla base di un titolo di investitura nullo non possono derivare da alcun principio la loro validità, si può passare ad affrontare la tematica della loro qualificazione giuridica. In tal senso è del tutto condivisibile la critica che autorevole dottrina muove all’utilizzo del principio dell’apparentia juris come strumento di salvaguardia della validità (e, su tale premessa, dell’efficacia) degli atti adottati dal funzionario di fatto. Tale evenienza potrebbe, infatti, essere predicata in presenza di una norma generale espressa che non sembra potersi desumere da una, spesso ricordata, disposizione del codice civile (113 c.c.), espressa in termini tutt’altro che generali. A nostro avviso, infatti, il principio dell’affidamento incolpevole del terzo nell’apparenza può avere un ruolo nell’imputazione degli atti di cui si discute, ma non può fungere da parametro di validità succedanea dei medesimi. Un’accezione conforme a costituzione del principio di legalità impone di escludere dal novero degli atti validi quelli difformi dal parametro in base al quale tale giudizio viene formulato e non si scorgono le ragioni per le quali tale difformità dovrebbe essere qualificata, ex abrupto, come irrilevante, specialmente nel caso in cui la stessa raggiunga il grado massimo: la nullità. Appaiono, dunque, eccessive e non condivisibili le posizioni dottrinarie che configurano gli atti del funzionario di fatto, tale sulla base di un titolo d’investitura nullo, come comunque validi ed efficaci. Da ciò la conseguenza necessitata per la quale gli atti di cui discutiamo sono da considerarsi viziati sotto il profilo soggettivo e, come tali, comunque invalidi. Il problema, a questo punto, diventa quello della definizione del tipo di invalidità, dovendoci chiedere se, alla nullità dell’investitura nell’ufficio, consegua, o meno, la nullità anche degli atti adottati. L’opzione teorica che sembra maggiormente convincente per spiegarne la sorte è quella dell’invalidità derivata, che in questa sede sarebbe, però, fuor d’opera approfondire. Come noto, l’invalidità derivata è qualificazione giuridica da attribuirsi a quelle fattispecie che pur conformi al paradigma di riferimento risulti invalida a causa di vizi che incidono sull’atto che ne costituisce l’antecedente necessario. Ai nostri limitati fini riveste, però, interesse una sola species del genus invalidità derivata: la nullità derivata. Il bivio non è di poco momento e si inserisce in una delle tematiche più complesse della patologia degli atti amministrativi, che qui interessa sotto limitati profili. La dottrina che si è occupata del problema oscilla tra la nullità derivata e l’annullabilità del provvedimento adottato sulla base del titolo nullo e rispecchia le rispettive posizioni teoriche sul tema dell’attività amministrativa di fatto. La prima impostazione, infatti, vede nel funzionario di fatto una eccezione alla regola della nullità per derivazione, e quindi una applicazione di principi autonomi. La seconda considera l’attività amministrativa di fatto alla luce dei principi generali, negando l’autonomia dei principi che governano l’istituto. Premesso che, in entrambi i casi, l’attività posta in essere dal funzionario di fatto viene riferita all’amministrazione, seppur seguendo diversi percorsi, la seconda opzione, affrontando la tematica dell’invalidità derivata alla luce dell’attività amministrativa di fatto, appare preferibile, perché consente di trattare la tematica del vizio derivato esterno in termini più corretti. Sul punto, come accorta dottrina ha rilevato, è arduo e forse inutile delineare una chiave di lettura unitaria, anche in ragione del fatto che il legame di presupposizione che lega atto presupponente e presupposto (nullo) si presta alle interpretazioni più disparate, imponendo all’interprete di rifugiarsi nel case method. Adottando, quindi, la distinzione tra invalidità derivata viziante e caducante avremo un esempio della seconda laddove il nesso di presupposizione che lega l’atto di investitura nullo ed il provvedimento adottato sia qualificabile in termini di stretta dipendenza logico-formale, mentre applicheremo il primo nel caso in cui questa dipendenza non vi sia. Può, quindi, dirsi che il provvedimento adottato in difetto, ab initio, dell’atto di nomina, o nonostante un titolo di legittimazione nullo o inefficace è, dunque, da riferirsi all’amministrazione per la teoria del funzionario di fatto qui accolta, ed efficace, o meno, a seconda non della sua pretesa ‘favorevolezza’, ma dell’intensità del nesso funzionale di derivazione che lo lega alla nomina nulla. Questo vale però nel caso in cui l’atto di nomina, indipendentemente dalla sua struttura giuridica, sia già stato dichiarato nullo al momento dell’adozione del provvedimento che la presuppone. Qualora, invece, ciò non sia già avvenuto, si pongono problemi autonomi, che riguardano gli aspetti processuali del problema, attenendo al profilo della legittimazione ad impugnare l’atto adottato congiuntamente alla nomina radicalmente invalida. La questione della tipologia del vizio che inficia l’atto adottato sul presupposto di una nomina nulla, tuttavia, non muta la sua sostanza neppure se vista sotto tale diverso angolo visuale. Infatti, la giurisprudenza ritiene che non sussista un interesse qualificato e diretto ad impugnare l’atto di investitura emanato da un organo amministrativo a competenza generale in occasione dell’impugnazione degli atti emanati dall’organo stesso, salvo il caso in cui l’investitura abbia avuto luogo per il compimento di atti specifici (il che si verifica nell’ipotesi di uffici temporanei). Si utilizza, cioè, la diversa intensità del nesso funzionale sopra evidenziato per fondare l’esistenza o meno dell’interesse a ricorrere. In tal caso dunque, l’atto adottato dal soggetto il cui atto di investitura che risulta nullo perché la relativa dichiarazione sopravviene all’adozione del provvedimento oppure perché sopravviene lo stato di antigiuridicità della nomina, dovrà comunque imputarsi all’amministrazione. Dovrà, però dirsi, a sua volta, nullo, se sussiste quel legame che ne giustifica la caducazione, mentre verrà qualificato come solo annullabile nelle altre ipotesi, che scolorano in casi di illegittimità solo viziante.
10. Osservazioni conclusive
Dalle precedenti osservazioni possono trarsi alcune indicazioni di fondo sulla tematica specifica dell’investitura nulla e del rapporto di fatto. Gli esiti raggiunti con il presente studio sembrano confermare la correttezza ed attualità dell’insegnamento che, in caso di attività posta in essere da organi amministrativi agenti in base ad un titolo invalido, impone di scindere la problematica dell’imputazione da quella della sorte dei relativi atti. Tale bipartizione ha consentito di criticare l’utilizzo del concetto di ‘attività amministrativa di fatto’ come mezzo per elidere tutti i problemi che l’invalidità della nomina porta con sé e di proporre un peculiare utilizzo del principio dell’apparentia juris come grimaldello concettuale nella ricerca del fondamento dell’imputazione degli atti adottati sulla base di un titolo del tutto inidoneo all’effetto. Del resto, la privatizzazione del cd. impiego pubblico e degli strumenti di investitura ad un pubblico ufficio impongono di ripensare il problema delle regole di imputazione alla luce di un sistema di concetti costruito più per disciplinare un rapporto che per governare quella puntualizzazione del potere che è l’atto amministrativo. Inoltre, solo ragionando in termini autonomi dell’imputazione ed individuando i principi che la fondano, a nostro modo di vedere, si può affrontare il problema della sorte degli atti. Vero è, infatti, che il perno del problema dell’attività amministrativa di fatto “è semplicemente un problema di validità degli atti relativi, che va risolto alla stregua dei principi generali sulla validità degli atti amministrativi”, ma presuppone risolta la questione dell’imputazione. E’ questa, a nostro modo di vedere, l’utilità dell’indagine sui principi giustificatori dell’imputazione stessa, atteso che, per usare un’efficace espressione, ‘la regola’ dell’invalidità derivata, che pure si ritiene il miglior tentativo di sistemazione dogmatica del problema degli atti adottati dal funzionario di fatto, presuppone risolto in termini positivi il problema della qualificazione come “amministrativi” degli atti cui la stessa si applica. In tal senso, il tema della nullità dell’atto di investitura si è prestato meglio di altre ipotesi, in cui pure si pone la questione dell’attività amministrativa di fatto, ad evidenziare la necessità di due livelli d’indagine attesa la diversità delle problematiche che gli stessi evocano. Su questa base si è, quindi, ritenuto che l’esigenza di tutela della buona fede del privato, incorso in un errore scusabile determinato dal fatto dell’amministrazione, che la stessa tradizione romanistica ci tramanda, non viene a porsi come strumento concorrente dell’invalidità derivata per tentare una sistemazione dogmatica degli atti del funzionario di fatto, ma sia un antecedente di questa, posto in una ipotetica stufenbau logica dei principi da richiamare trattando del tema in esame, un gradino sopra rispetto ad essa.
zione come “amministrativi” degli atti cui la stessa si applica. In tal senso, il tema della nullità dell’atto di investitura si è prestato meglio di altre ipotesi, in cui pure si pone la questione dell’attività amministrativa di fatto, ad evidenziare la necessità di due livelli d’indagine attesa la diversità delle problematiche che gli stessi evocano. Su questa base si è, quindi, ritenuto che l’esigenza di tutela della buona fede del privato, incorso in un errore scusabile determinato dal fatto dell’amministrazione, che la stessa tradizione romanistica ci tramanda, non viene a porsi come strumento concorrente dell’invalidità derivata per tentare una sistemazione dogmatica degli atti del funzionario di fatto, ma sia un antecedente di questa, posto in una ipotetica stufenbau logica dei principi da richiamare trattando del tema in esame, un gradino sopra rispetto ad essa.