Aggiornamento Normativo e Giurisprudenziale 26/2013
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Lingua |
Italiano
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Data di pubblicazione |
06/11/2013
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AGGIORNAMENTO NORMATIVO E GIURISPRUDENZIALE 26/2013
SOMMARIO
1. L’Attestato di Prestazione Energetica ex D.L. 192/2005 come modificato dal D.L. 63/2013 convertito con legge n. 90/2013
2. Tribunale di Busto Arsizio, sentenza 7 ottobre 2013
CONCORDATO PREVENTIVO – FALCIDIA DEL CREDITO IVA
3. Cassazione, sezione prima, sentenza 15 ottobre 2013, n. 23387
ATTI DI FRODE E REVOCA DELL’AMMISSIONE AL CONCORDATO PREVENTIVO
4. Cassazione, sezione Prima, sentenza 16 ottobre 2013, n. 23540
COMPUTO DELLE AZIONI PROPRIE AI FINI DEL CALCOLO DEL QUORUM ASSEMBLEARE NELLE SPA
1. L’Attestato di Prestazione Energetica ex D.L. 192/2005 come modificato dal D.L. 63/2013 convertito con legge n. 90/2013
L’Attestato di Prestazione Energetica (APE) è il documento che, a seguito dell’emanazione del D.L. 63/2013, ha sostituito l’Attestato di Certificazione Energetica quale strumento per consentire un’adeguata informazione dei proprietari, acquirenti e locatari di edifici per quanto riguarda il grado di efficienza energetica degli stessi.
L’attestato ha una validità temporale massima di dieci anni, sempre che:
- nel frattempo non siano stati eseguiti interventi di ristrutturazione o riqualificazione tali da modificare la classe energetica dell’edificio ed impongano dunque un aggiornamento;
- siano state rispettate le prescrizioni per le operazioni di controllo di efficienza energetica dei sistemi tecnici dell’edificio, quali ad esempio gli impianti termici.
La nuova regolamentazione della certificazione energetica prevede, inoltre, che possono a tutt’oggi considerarsi ancora validi gli attestati di certificazione energetica rilasciati in data anteriore al 6 giugno 2013 e tutt’ora in corso di validità, sempre che non siano state compiute attività che ne rendano necessario un aggiornamento.
Con riferimento ai requisiti che deve possedere il tecnico incaricato per procedere al rilascio dell’attestato in parola, occorre considerare la circostanza che l’immobile cui ci si riferisce si trovi o meno in regioni che si siano dotate di una specifica normativa in materia, creando, ad esempio, appositi albi tecnici accreditati al rilascio dell’attestato.
Qualora l’immobile si trovi in regioni sprovviste di specifica normativa l’individuazione di un tecnico abilitato può rivelarsi alquanto difficoltosa poiché determinata da una pluralità di fattori quali il titolo di studio, l’iscrizione ad un ordine professionale, l’abilitazione alla progettazione di edifici o la frequenza di una corso di formazione.[1]
Al fine di assicurare indipendenza ed imparzialità di giudizio, i tecnici devono dichiarare di non trovarsi in conflitto di interessi con il soggetto che richiede il rilascio dell’APE. In particolare è necessario che il tecnico non sia coniuge o parente, fino al quarto grado, del richiedente e non sia coinvolto, direttamente o indirettamente, nella progettazione dell’edificio o nella produzione dei materiali utilizzati od incorporati nel fabbricato.
I presupposti che danno luogo all’obbligo di dotazione dell’ APE si distinguono in presupposti di carattere oggettivo e presupposti di carattere contrattuale.
Quanto ai primi, la normativa prevede che alcuni edifici debbano essere dotati dell’attestazione a prescindere da un loro trasferimento a titolo oneroso o gratuito o dalla loro locazione. In particolare devono essere dotati di APE:
- I nuovi edifici, ossia quelli realizzati in forza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività richiesta o presentata dopo l’8 ottobre 2005;
- Gli edifici ristrutturati (solo con riferimento alla “ristrutturazioni importanti”[2]);
- Gli edifici pubblici, da intendersi sia quelli adibiti ad uso pubblico che quelli di proprietà pubblica.
Quanto al presupposto di natura contrattuale, si osserva come per gli edifici già esistenti l’obbligo di dotazione dell’APE sorge solo in occasione del loro trasferimento sia a titolo oneroso che gratuito e in caso di nuova locazione.
L’obbligo di dotazione, tuttavia, non vige solo all’atto della stipula del negozio di trasferimento o della locazione, ma deve ritenersi operante addirittura anteriormente alla data di conclusione dell’eventuale contratto preliminare, dovendo il venditore/locatore mettere a disposizione dell’acquirente/conduttore l’APE sin dal momento dell’avvio delle trattative.
Alla fine delle trattative, coincidenti nel caso della vendita con la conclusione del preliminare, il venditore/locatore dovrà consegnare l’attestato alla propria controparte.
L’omessa dotazione dell’attestato in commento non è priva di conseguenza in quanto comporta l’applicazione di sanzioni economiche piuttosto pesanti: il proprietario che incorra in una simile violazione è, infatti, punito con una sanzione amministrativa compresa tra i 3.000, 00 ed i 18.000,00 euro.
L’APE dovrà, inoltre, essere allegata al contratto di vendita/locazione a pena di nullità assoluta dello stesso, con la conseguenza che la nullità potrà essere fatta valere da chiunque ed essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’azione per far dichiarare la nullità, inoltre, non è soggetta a prescrizione ed il contratto non è suscettibile neppure di convalida.
Da più parti si ritiene che la disciplina illustrata sia applicabile, in via estensiva, anche a contratti quali il leasing e l’affitto di azienda, qualora essi abbiano ad oggetto edifici comportanti consumo energetico.
Da una valutazione della possibile applicabilità analogica della disciplina in commento, è possibile, in estrema sintesi, affermare che, oltre che nel caso della locazione e della vendita, l’obbligo di dotazione, consegna e allegazione dell’APE è operante per i seguenti atti traslativi:
- Permuta;
- Assegnazione di alloggi da cooperative edilizie ai propri soci;
- Datio in solutum;
- Transazione;
- Conferimento di edifici in società;
- Assegnazione di edifici da società (ad esempio a seguito di liquidazione o recesso del socio);
- Costituzione di rendita vitalizia e vitalizio “alimentare” (qualora a fronte della costituzione della rendita si trasferisca un edificio comportante consumo energetico);
- Cessione o conferimento di società in azienda;
- Donazione;
- Patto di famiglia;
- Fondo patrimoniale (qualora nello stesso venga conferito un edificio comportante consumo energetico);
- Assoggettamento di edificio al regime della comunione legale dei beni;
- Adempimento di un’obbligazione naturale;
- Conferimento di immobile in Trust non autodichiarato (la normativa va applicata sia in caso di trasferimento dal beneficiario al trustee che nel caso di trasferimento dal trustee ai beneficiari finali).
Sono invece esclusi dall’applicazione della normativa in commento i seguenti atti:
- Costituzione di fondo patrimoniale senza trasferimento di immobili;
- Comodato;
- Trust autodichiarato
- Vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c.;
- Divisione;
- Identificazione catastale;
- Costituzione di ipoteche;
- Costituzione di servitù;
- Cessioni di azioni, quote e partecipazioni di società proprietarie di immobili ed operazioni straordinarie ad esse relative.
Nei contratti di vendita, negli atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito e nei contratti di nuova locazione, dovrà, poi, essere inserita un’apposita clausola con la quale l’acquirente o il conduttore daranno atto di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dello stesso attestato, in ordine proprio al rilascio dell’attestazione di prestazione energetica degli edifici.
E’ previsto, infine, l’obbligo di riportare i parametri energetici nell’annuncio di offerta di vendita o locazione degli immobili, siano essi preesistenti alla normativa o di nuova costruzione, pena per il responsabile dell’annuncio l’applicazione di una sanzione amministrativa non inferiore a euro 500,00 e non superiore ad € 3.000,00.
2. Tribunale di Busto Arsizio, sentenza 7 ottobre 2013
CONCORDATO PREVENTIVO – FALCIDIA DEL CREDITO IVA
Con la pronuncia in commento il Tribunale lombardo è intervenuto sulla questione della ammissibilità, in considerazione del disposto del primo comma dell’art. 182 ter L.F., della domanda di concordato che preveda il pagamento solo parziale dell’IVA.
Sul punto era già intervenuta la Corte di Cassazione la quale aveva sostenuto che un intervento sul pagamento dell’IVA era ammissibile solo nell’ambito di una transazione fiscale e ciò per motivi di ordine sia logico che giuridico.
Dal primo punto di vista i giudici di legittimità hanno sottolineato come non possa essere rimessa esclusivamente al debitore la scelta di provvedere o meno all’integrale pagamento dell’imposta, mentre dal secondo punto di vista si è ritenuto che la disposizione relativa al parziale pagamento del credito IVA sia una norma eccezionale dal carattere sostanziale, applicabile a prescindere dalla procedura di transazione fiscale.
Il Tribunale di Busto Arsizio, al contrario, ritiene che il principio espresso dall’art. 182 ter L.F., per cui l’IVA non sarebbe decurtabile, sia valido solo nell’ambito dell’istituto della transazione fiscale.
Il Giudice di merito giunge ad una simile soluzione, inizialmente, sulla base dell’analisi della ratio che ha ispirato la norma: nella pronuncia, infatti, si osserva come la stessa sia stata pensata per limitare il potere discrezionale dei funzionari degli enti impositori chiamati a decidere sulla transazione proposta dal debitore.
Deve, inoltre, essere tenuto presente che, essendo l’IVA una imposta comunitaria, è fatto espresso divieto agli Stati membri di rinunciare in maniera indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento e verifica con riferimento ad essa.
L’intenzione del legislatore di circoscrivere alla transazione fiscale la non decurtabilità dell’IVA emergerebbe anche dall’intenzione dello stesso di assimilare il trattamento delle ritenute d’acconto all’IVA.
Il Tribunale sottolinea, poi, come la norma in esame non possa essere considerata quale norma sostanziale in quanto avrebbe l’effetto di stravolgere l’ordine dei privilegi nella procedura di concordato come stabilito dall’art. 160 L.F. Inoltre, la sua evidente natura eccezionale (evincibile anche solo dal suo inserimento in un articolo espressamente dedicato ad un particolare istituto) ne impedisce l’applicazione analogica in casi diversi, seppur simili, a quelli della transazione fiscale.
Secondo il Tribunale, quindi, “ la previsione del primo comma dell’art. 182 ter L.F. opera esclusivamente ogni qual volta l’imprenditore voglia, e soprattutto possa, avvalersi dei vantaggi dell’istituto della transazione fiscale (quali il c.d. consolidamento del debito tributario e l’estinzione dei giudizi pendenti), avendone le risorse. In tal caso infatti il debitore sceglie di utilizzare i vantaggi della transazione nella piena consapevolezza della non negoziabilità del credito IVA e dei crediti per ritenute per i quali l’amministrazione può unicamente assentire ad un pagamento dilazionato”, non ammettendone la falcidia.
3. Cassazione, sezione prima, sentenza 15 ottobre 2013, n. 23387
ATTI DI FRODE E REVOCA DELL’AMMISSIONE AL CONCORDATO PREVENTIVO
La Corte di Cassazione si è pronunciata in favore della possibilità che l’ammissione al concordato preventivo possa essere revocata nel caso in cui comportamenti fraudolenti posti in essere dall’imprenditore abbiano pregiudicato il consenso informato dei creditori.
I giudici di legittimità, rifacendosi a quanto già stabilito con la sentenza n. 13817 del 2011, hanno precisato che gli atti di frode che possono determinare la revoca dell’ammissione al concordato consistono in condotte volontarie volte a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento dei creditori che siano state poste in essere con l’obiettivo di occultare situazioni che, altrimenti, avrebbero determinato una valutazione differente della proposta.
La Corte, in particolare, osserva come la condotta dell’imprenditore deve essere verificata nella sua correttezza non solo con riferimento alle scritture contabili, ma anche con riferimento ai fatti esposti nella domanda di concordato, negli allegati di quest’ultimo, nel piano e nella relazione del professionista.
La necessità che la qualità della condotta sia valutata anche con riferimento a questa seconda tipologia di documentazione, e non esclusivamente con riferimento alle scritture contabili, trae origine dal fatto che la documentazione contabile non rappresenta, in genere, lo strumento con il quale il debitore porta a conoscenza dei creditori le informazioni necessarie perché questi ultimi possano esprimere il loro consenso alla proposta di concordato. Ciò comporta che la mancata annotazione di fatti e circostanze nella proposta non possa essere sostituita dall’annotazione nelle scritture contabili.[3] Il Tribunale, dunque, è chiamato a garantire che ai creditori siano messe a disposizione, in maniera intellegibile e di rapida comprensione, tutte le informazioni necessarie perché gli stessi possano operare una corretta valutazione della proposta.
Il silenzio della proposta su fatti rinvenibili nelle scritture contabili, tuttavia, non costituisce, di per sé, un atto di frode: perché ciò si verifichi è necessario che la condotta omissiva riguardi quelle operazioni che siano suscettibili di assumere diverso rilievo, ai fini del soddisfacimento dei creditori, in caso di fallimento e in caso di concordato preventivo.[4]
Nello specifico caso affrontato, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistenti i requisiti propri dell’atto di frode, come sopra specificati, con riferimento a pagamenti preferenziali effettuati nei sei mesi anteriori alla presentazione della domanda di concordato e alla cessione alla convivente dell’imprenditore di una quota della partecipazione nella s.r.l.
4. Cassazione, sezione Prima, sentenza 16 ottobre 2013, n. 23540
COMPUTO DELLE AZIONI PROPRIE AI FINI DEL CALCOLO DEL QUORUM ASSEMBLEARE NELLE SPA
Con la pronuncia che si segnala la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di quorum costitutivo delle assemblee societarie, indagando in particolare se la maggioranza assoluta necessaria per deliberare nell’assemblea ordinaria di una S.p.A. in seconda convocazione debba essere calcolata sul solo ammontare delle azioni rappresentate dai soci partecipanti all’assemblea, oppure debbano aggiungersi a queste le azioni proprie di cui sia titolare la società.
La questione è stata risolta dalla Corte con riferimento alla previgente disciplina[5] la quale, all’art. 2357 ter c.c., comma 2, secondo periodo, stabiliva che “Il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le delibere dell’assemblea”.
Secondo quanto appena riportato, le azioni proprie della società devono essere computate ai fini del calcolo del quorum solo allorché si configurino quali quote di capitale sociale; ciò sicuramente non accade quando non è previsto un particolare quorum costitutivo, come accade nelle assemblee in seconda convocazione dove le delibere sono prese a maggioranza, qualsiasi sia la parte di capitale rappresentata dai soci intervenuti.
Va, infatti, considerato che in una situazione come quella prospettata (ossia assemblea dei soci in seconda convocazione), le azioni proprie non possono essere considerate come se fossero “presenti” in assemblea, in quanto non sono queste a prendere parte all’assemblea, ma i soci che le detengono ed alle società è fatto divieto di essere socie di se stesse e prendere parte ad un proprio organo interno.
Per la Corte regolatrice la scelta del legislatore di non includere le azioni proprie nella base di calcolo del quorum necessario per la costituzione dell’assemblea ordinaria in seconda convocazione risponde all’esigenza di evitare situazioni di stallo, per l’impossibilità di formare una maggioranza, soprattutto per quanto concerne deliberazioni vitali per l’esistenza stessa della società, quali l’approvazione del bilancio o la nomina delle cariche sociali.
La Corte ritiene, infine, che quella appena segnalata sia l’unica interpretazione legittima della norma in commento, non potendo avere alcun effetto nell’ermeneutica della stessa la nuova formulazione dell’art. 2357 ter, comma 2, secondo periodo, che espressamente stabilisce che “Il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e le deliberazioni dell’assemblea”.
[1] Per una più chiara individuazione dei tecnici abilitati al rilascio dell’APE si rinvia allo studio n. 657-2013/C del Consiglio Nazionale del Notariato disponibile sul sito internet www.notariato.it.
[2] Rilevano esclusivamente gli interventi di recupero edilizio che insistono su oltre il 25% della superficie dell’involucro dell’intero edificio, comprensivo di tutte le unità immobiliari che lo costituiscono. E’ importante notare che la nozione di ristrutturazione rilevante ai fini energetici è differente da quella rilevante ai fini urbanistici ed edilizi.
[3] La Corte precisa che le scritture contabili vanno considerate, spesso anche per la loro complessità, lo strumento utilizzato, non dai creditori, bensì dal commissario giudiziale per condurre le operazioni di verifica e accertamento sul piano ed i suoi allegati.
[4] Non tutti gli atti di frode, quindi, possono essere considerati idonei ad arrestare la procedura: possono avere una simile efficacia unicamente quegli atti che “hanno l’attitudine a ingannare i creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, sottacendo, in particolare, l’esistenza di parte dell’attivo o aumentando artatamente il passivo in modo da far apparire la proposta più conveniente rispetto alla liquidazione fallimentare” NARDECCHIA, “Concordato, la frode va «mostrata» ai creditori”, ne Il Sole 24 ORE del 28 ottobre 2013
[5] La Corte fa riferimento alla normativa introdotta con il DPR 10 febbraio 1986, n. 30