Aggiornamento Normativo e Giurisprudenziale 27/2013
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Lingua |
Italiano
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Data di pubblicazione |
14/11/2013
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AGGIORNAMENTO NORMATIVO E GIURISPRUDENZIALE 27/2013
SOMMARIO
1. Cassazione, Sezione Prima, sentenza 15 ottobre 2013, n. 23381
IL LOGORAMENTO DEL RAPPORTO FIDUCIARIO TRA AZIONISTA DI MAGGIORANZA ED AMMINISTRATORI NON COSTITUISCE GIUSTA CAUSA DI REVOCA
2. Corte Costituzionale, ordinanza 7 novembre 2013, n. 261
APPLICAZIONE NON RETROATTIVA DEI PARAMETRI PER LA LIQUIDAZIONE DEL COMPENSO DEGLI AVVOCATI
3. Cassazione, Sezioni Unite, 7 novembre 2013, n. 25036
INVALIDITA’ DELLA PROCURA IN MANCANZA DI CHIARA INDICAZIONE ED INDIVIDUAZIONE DEL SOTTOSCRITTORE
4. Cassazione, Sezione Sesta, 8 novembre 2013, n. 25128
NOTIFICA A MEZZO DI RACCOMANDATA A/R DELLA CARTELLA ESATTORIALE VALIDA ANCHE SENZA ESPRESSA IDENTIFICAZIONE DEL RICEVENTE
1. Cassazione, Sezione Prima, sentenza 15 ottobre 2013, n. 23381
IL LOGORAMENTO DEL RAPPORTO FIDUCIARIO TRA AZIONISTA DI MAGGIORANZA ED AMMINISTRATORI NON COSTITUISCE GIUSTA CAUSA DI REVOCA
Con la sentenza che si segnala la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alle condotte che possono configurare la giusta causa di cui all’art. 2383 c.c. perché l’assemblea di una società di capitali possa revocare gli amministratori, confermando che non può costituire giusta causa di revoca l’avvenuto logoramento dei rapporti, anche umani, che derivino da comportamenti degli stessi amministratori considerati ostili dalla maggioranza che li ha eletti.
I giudici di legittimità ritengono che una valutazione del rapporto fiduciario esistente tra amministratori e soci di maggioranza comporti un esame “meta-giuridico” del comportamento dei primi e rischierebbe di legittimare condotte volte a tutelare non l’interesse generale della società, bensì quello di singoli soci.
Il venir meno del rapporto fiduciario non è, dunque, di per sé solo sufficiente a giustificare un provvedimento di revoca in quanto un simile atto andrebbe suffragato dalla allegazione di fatti idonei a far dubitare della correttezza e delle capacità gestionali dei soggetti incaricati dell’amministrazione.
Una diversa valutazione aprirebbe le porte ad una legittimazione del recesso ad nutum, cui dovrebbe necessariamente conseguire l’automatico diritto per l’amministratore sollevato dall’incarico a vedersi liquidare un somma a ristoro del pregiudizio subito.
Nel particolare caso affrontato dalla Cassazione, la società della revoca dei cui amministratori si discuteva era una società di capitali costituita per lo svolgimento di un servizio pubblico e partecipata, in via maggioritaria, da un ente pubblico territoriale. La difesa di tale ente ha sollecitato la corte chiedendo alla stessa di riconoscere che lo svolgimento di un servizio pubblico impone una valutazione più stringente dei rapporti intercorrenti tra amministratori e soci pubblici, con la conseguenza che il venir meno del rapporto fiduciario tra tali soggetti deve essere considerato, anche solo in circostanze di tal genere, quale elemento sufficiente per giustificare un provvedimento di revoca.
La Cassazione ha, al contrario, ritenuto applicabili alla fattispecie le regole in generale valide per le società di capitali, senza riconoscere particolare pregio alla circostanza che l’oggetto sociale della società fosse la realizzazione di un servizio pubblico o che il socio di maggioranza fosse un ente pubblico, rilevando come con una diversa interpretazione si pretenderebbe “di annullare il concetto di giusta causa e di imporre una fedeltà degli amministratori al socio pubblico che snaturerebbe completamente la natura privata della società in danno degli interessi della società e della minoranza oltre che, in ipotesi, nel caso di società partecipata per motivi di pubblico interesse, anche degli stake-holders a cui vantaggio la partecipazione pubblica è prevista”.
Nel caso analizzato, poi, i comportamenti posti in essere dagli amministratori e sgraditi all’ente non sono stati altro che condotte pienamente coerenti con il mandato ad amministrare.
Va, infine, rilevato che il contegno dell’ente nel caso di specie potrebbe altresì essere oggetto di sanzione ad opera della Corte dei Conti, per avere lo stesso agito con gli strumenti del diritto societario non a tutela dell’interesse pubblico e per aver arrecato un danno economico alla società partecipata, per esser stata condannata ed aver dovuto risarcire il danno all’amministratore illegittimamente revocato.[1]
2. Corte Costituzionale, ordinanza 7 novembre 2013, n. 261
APPLICAZIONE NON RETROATTIVA DEI PARAMETRI PER LA LIQUIDAZIONE DEL COMPENSO DEGLI AVVOCATI
Con l’ordinanza del 7 novembre scorso la Consulta ha respinto, per manifesta inammissibilità ed infondatezza, 4 questioni di legittimità costituzionale relative all’applicazione temporale del decreto sui nuovi parametri da utilizzare per la liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati.
Nel motivare il proprio provvedimento la Corte, precisando che non è esatto ritenere che al compimento di ogni singolo atto del professionista sorga il diritto di questi al compenso in relazione alle tariffe al tempo vigenti, ha richiamato la pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione sul tema, nella quale si affermava che il compenso del professionista costituisce un corrispettivo unitario “che ha riguardo all’opera professionale complessivamente prestata; e di ciò non si è mai dubitato, quando si è trattato di liquidare onorari maturati all’esito di cause durante le quali si erano succedute nel tempo tariffe professionali diverse, giacché sempre in siffatti casi si è fatto riferimento alla tariffa vigente al momento in cui la prestazione professionale si è esaurita”.[2]
L’unitarietà del compenso rende evidente come dall’applicazione del decreto ministeriale 140/2012 neppure derivi alcuna violazione dell’art. 3 della Costituzione: pur volendo considerare il caso astratto di due avvocati, i quali abbiano posto in essere un medesimo adempimento alla stessa data, ma solo uno di essi ha prontamente chiesto il pagamento del compenso sulla base delle vecchie tariffe al tempo in vigore, mentre l’altro ha atteso la conclusione del procedimento vedendosi liquidare un compenso inferiore poiché commisurato a quanto previsto dai nuovi parametri, ci troveremmo di fonte ad “un inconveniente di fatto non direttamente riconducibile alla disciplina denunciata, bensì a variabili accidentali legate alla sua applicazione” che non dà luogo ad alcuna violazione dei principi di uguaglianza, sia formale che sostanziale, e di ragionevolezza tutelati dalla nostra Costituzione.
3. Cassazione, Sezioni Unite, 7 novembre 2013, n. 25036
INVALIDITA’ DELLA PROCURA IN MANCANZA DI CHIARA INDICAZIONE ED INDIVIDUAZIONE DEL SOTTOSCRITTORE
Le Sezioni Unite della Cassazione tornano ad affermare il principio secondo cui il segno illeggibile con il quale viene sottoscritta una procura alle liti rende la procura invalida sia nel caso in cui il nome del sottoscrittore non risulti dal testo della stessa o dalla certificazione di autenticità dell’avvocato, sia nel caso in cui tale nome non sia individuabile nel testo dell’atto né sia desumibile dall’indicazione di una specifica funzione o carica specifica e venga allegata genericamente la qualità di legale rappresentate.
Il vizio in cui si incorre in simili ipotesi è quello della nullità relativa, disciplinata dall’art. 157, secondo comma c.p.c., che impone alla parte che intenda sollevarlo di formulare apposita eccezione con la prima istanza o difesa successiva all’atto contenete la procura.
Ove si accerti l’invalidità della procura, a causa dell’illeggibilità del segno di sottoscrizione e per mancata individuazione dell’autore, senza che la parte interessata nulla abbia addotto per sanare l’indicazione lacunosa, l’atto cui la procura stessa accede deve inevitabilmente considerarsi inammissibile.
Le ragioni per le quali la corte ritiene di dover giungere a simili conclusioni sono: “a) il conferimento mediante procura dell’incarico difensivo, integrando una manifestazione di volontà, è atto della persona fisica, stia essa in giudizio in proprio ovvero in nome e per conto altrui; b) la manifestazione di volontà è tale in quanto sia conosciuta o conoscibile l’identità dell’autore; c) la questione attinente a tale conoscenza o conoscibilità, nel caso di rappresentanza, è prioritaria ed autonoma rispetto a quella della sussistenza del potere rappresentativo; d) solo se e dopo che sia noto il soggetto definitosi come rappresentante è possibile e conferente indagare sulla rispondenza a tale realtà della relativa enunciazione: le due problematiche non sono sovrapponibili e, correlativamente, i dati riguardanti la spettanza del potere di rappresentanza sono rilevanti esclusivamente in un momento successivo (ed eventuale), ove il potere stesso sia in discussione”.
4. Cassazione, Sezione Sesta, 8 novembre 2013, n. 25128
NOTIFICA A MEZZO DI RACCOMANDATA A/R DELLA CARTELLA ESATTORIALE VALIDA ANCHE SENZA ESPRESSA IDENTIFICAZIONE DEL RICEVENTE
Richiamando un precedente indirizzo giurisprudenziale la Corte di Cassazione si pronuncia sulla questione relativa alla necessità che, nella notifica a mezzo posta, sia indicata dal soggetto consegnatario l’identità e la qualificazione di colui il quale riceve la notifica della cartella esattoriale.
La Corte precisa che “La cartella esattoriale può essere notificata , ai sensi dell’art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, anche direttamente da parte del concessionario mediante raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual caso, secondo la disciplina degli artt. 32 e 39 del d.m. 9 aprile 2001, è sufficiente, per il relativo perfezionamento, che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente; ne consegue che se, come nella specie, manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, adempimento non previsto da alcuna norma, e la relativa sottoscrizione sia addotta come inintellegibile, l’atto è pur tuttavia valido, poiché la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale, assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 cod. civ. ed evidentemente solo in tal modo impugnabile, stante la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata”:[3]
L’applicazione dell’enunciato principio di diritto comporta, dunque, che coloro i quali intendessero contestare le cartelle esattoriali in quanto consegnate dall’addetto postale a persona diversa e non nota, dovranno necessariamente fare ricorso alla procedura per querela di falso.
[1] CAPONI, “La mancata fiducia non è giusta causa per revocare il Cda” ne Il Sole 24 ORE del Lunedì del 11 novembre 2013
[2] Cassazione, Sezioni unite, sentenza 12 ottobre 2010, n. 17405
[3] Cassazione, sezione V, sentenza 27 maggio 2011, n. 11708